Storia

Lo Stato è costituito da due regioni storiche, la Bosnia e l'Erzegovina, legate da un comune filo conduttore. Entrambe – prima di assumere tali denominazioni che risalgono al Medioevo – appartennero alla provincia romana di Dalmazia, furono comprese nell'Impero d'Occidente e poi, dopo l'occupazione dei Goti (476) e la riconquista, passarono a far parte dell'Impero d'Oriente(530).

Slavizzate tra i sec. VII e VIII, la Bosnia e l'Erzegovina entrarono nell'orbita di dinastie slave. La prima già nel 1102 era banato indipendente, legato da vassallaggio (dal 1120) al re d'Ungheria cui appartenne direttamente a partire dal 1250. Dopo un periodo di lotte tra i conti cui il suo territorio era stato affidato, alla fine del sec. XIV la Bosnia ed Erzegovina fu annessa a un regno indipendente che, sotto Tvrtko I, comprendeva un vasto territorio includente i domini del regno serbo in dissoluzione e quindi anche l'Erzegovina.

Nella seconda metà del sec. XV la Bosnia (1463) e l'Erzegovina (1482) furono conquistate dai Turchi ai quali rimasero fino al 1878 quando, nel Congresso di Berlino, si stabilì che fossero date in amministrazione all'Austria-Ungheria, rimanendo però salvo il diritto di sovranità turca sul territorio. Nel 1908 l'Austria procedette unilateralmente all'annessione. Ciò procurò una situazione densa di tensioni da cui scaturì l'assassinio dell'erede al trono dell'impero asburgico, l'arciduca Francesco Ferdinando, da parte di un giovane serbo-bosniaco membro di un'associazione nazionalista, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914. Nel 1918, la Bosnia e l'Erzegovina furono integrate nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, che nel 1929 cambierà nome in Regno di Iugoslavia; durante la seconda guerra mondiale vennero invase da truppe italo-tedesche, anche se formalmente furono annesse alla Croazia, Stato fantoccio a regime ustascia creato dai nazi-fascisti.

Principale teatro operativo della resistenza partigiana, dal 1945 è diventata una delle sei Repubbliche costitutive della Iugoslavia Federale socialista fondata da Tito, leader comunista durante la lotta contro le forze di occupazione italo-tedesche e contro i nazionalisti anticomunisti interni.

Nell'ottobre 1991, sull'onda delle rivendicazioni nazionalistiche che, a partire dalla secessione di Croazia e Slovenia, avevano sconvolto la Iugoslavia, il Parlamento della Bosnia ed Erzegovina votò unilateralmente l'indipendenza. Ma tale decisione, raggiunta con l'accordo di musulmani e croati e sancita dal referendum popolare del 29 febbraio 1992, fu violentemente contestata dai serbi – terza grande etnia presente nella regione – che il 7 aprile 1992 (contemporaneamente al riconoscimento internazionale del nuovo Stato) proclamavano l'indipendenza della Repubblica serba di Bosnia, uscendo dalla presidenza federale di Sarajevo e dando avvio a una lunga e sanguinosa guerra civile. Si ripeteva lo scenario del conflitto etnico che già aveva opposto croati e serbi in Croazia, questa volta complicato e amplificato dalla presenza della componente musulmana. La capitale Sarajevo e i più importanti centri, abitati prevalentemente da popolazione musulmana, venivano stretti in una morsa dai combattenti serbo-bosniaci. Il blocco dei rifornimenti e i bombardamenti lasciarono Sarajevo isolata dal resto del mondo per ca. tre anni, fino alla conclusione della guerra. Sul resto del territorio prima i serbi e successivamente anche le altre componenti nazionali attuarono la pratica della cosiddetta “pulizia etnica”, consistente nell'eliminazione fisica o nell'espulsione di tutti gli appartenenti a etnie differenti dalla propria, allo scopo di raggiungere l'omogeneità abitativa. Né l'invio in Bosnia dei caschi blu dell'ONU, né l'embargo contro la Iugoslavia sostenitrice della componente serba e neppure i piani di pace presentati a più riprese dalle organizzazioni internazionali si rivelarono sufficienti a far cessare il conflitto. Al contrario, i progetti di pacificazione che comportavano una divisione etnica del territorio innescarono un'ulteriore recrudescenza del conflitto, scatenatosi anche tra le due entità bosniaco-musulmana e croata, che almeno formalmente fino ai primi mesi del 1993 erano alleate. Anche all'interno del fronte musulmano si verificarono divisioni, concretizzatesi in una momentanea secessione della regione di Bihac in Bosnia nordoccidentale dal governo di Sarajevo, che portò a una nuova guerra interna tra musulmani, mentre tutte le proposte di soluzione prospettate in sede internazionale caddero una dopo l'altra.

Nei primi due mesi del 1994 ulteriori atrocità si verificarono a Sarajevo dove le bombe degli assedianti colpivano bambini, persone in fila davanti ai negozi, gente all'interno di un mercato. L'ondata di proteste internazionali portò la NATO a intimare un ultimatum per il ritiro delle postazioni serbo-bosniache intorno a Sarajevo. La morsa intorno alla capitale bosniaca si allentò anche per una tregua concordata tra i combattenti delle due parti, ma il conflitto, nonostante alcuni raid NATO, continuò furioso.

Dopo alcuni mesi di relativa calma, nell'estate del 1995 le ostilità si riaccesero con un attacco dei serbi alle città enclaves musulmane rimaste nella Bosnia orientale, nonostante fossero state dichiarate zone protette dall'ONU e poste sotto la sua tutela. Il massacro più grave avvenne l'11 luglio in quella di Srebrenica, presidiata dai caschi blu olandesi che nulla fecero per fermare l'uccisione di ca. 8000 civili in fuga verso le zone sotto il controllo musulmano. Tuttavia, questo eccidio, autorizzato dal generale Mladić comandante dell'esercito serbo-bosniaco, determinò il punto di svolta decisivo alla risoluzione della guerra.

Il governo statunitense, sollecitato dall'opinione pubblica interna che chiedeva misure per far cessare carneficine come quella giudicate prive di senso, si impose sui belligeranti costringendoli a una pace sottoscritta a Dayton (in Ohio, USA), il 21 novembre dello stesso anno. Gli accordi, che ridisegnavano la geografia istituzionale della repubblica, vennero ratificati a Parigi il mese successivo per dare l'impressione che anche i Paesi europei avessero svolto un ruolo nella pacificazione. In ottemperanza alle clausole di pace, il 14 settembre 1996 si tennero le prime elezioni, sotto la supervisione internazionale. I tre maggiori partiti etnici, l'SDA musulmano, l'HDE croato e l'SDS serbo ottennero la maggioranza dei consensi e i loro rispettivi leader, il musulmano Izetbegović, il croato Zubak e il serbo Krajisnik vennero eletti alla presidenza collegiale. Malgrado i dubbi avanzati da più parti sulla correttezza dei risultati, la carica di presidente della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina fu assunta dal musulmano Izetbegović. Nel gennaio del 1997 la Camera dei deputati aprì i suoi lavori eleggendo due co-primi ministri della Repubblica, Boro Bosić (SDS) e Haris Silajdžić del Partito per la Bosnia ed Erzegovina (SBiH). Nel 1996 l'IFOR venne sostituita dalla SFOR (Stabilization Force) che, pur sotto il patrocinio della NATO, vide diminuire il coinvolgimento degli Stati Uniti a favore di una maggiore presenza di truppe europee. Con l'intento di far rispettare più rigidamente gli accordi di Dayton e di favorire la crescita democratica della Bosnia ed Erzegovina, nel novembre 1997 si riunì a Sarajevo l'ottavo vertice dell'InCE (Iniziativa Centro-Europea), cui parteciparono 16 capi di governo e delegazioni della Comunità Europea, della NATO e dell'OSCE.

Agli inizi del 1998, la nuova Repubblica serba e quella Federale Iugoslava firmarono l'accordo dei “legami speciali”, che avrebbero garantito una solida cooperazione commerciale, rafforzata dalla clausola militare di non aggressione. Malgrado ciò, furono proprio le elezioni presidenziali e legislative (del 13 settembre 1998) a rappresentare la più importante novità della politica bosniaca, premiando i tre partiti nazionalisti: il Partito di azione democratica (SDA), l'Unione democratica croata (HDZ) e il Partito democratico serbo (SDS). Per l'elezione del capo di Stato il maggior numero di voti andò nuovamente al musulmano Alija Izetbegović del Partito di azione democratica, ma, in base a un accordo di rotazione, la carica venne attribuita al serbo Zivko Radišić, riconfermato nel 2000. Nel frattempo, nella Repubblica serba di Bosnia nascevano forti contrasti tra i moderati e i sostenitori del presidente ultranazionalista Nikolola Poplasen. Questi, eletto a sorpresa nel settembre 1998 e destituito nel 1999 dall'alto rappresentante dell'ONU, fu accusato di ostacolare il processo di pace, in quanto si era rifiutato di riconfermare il democratico Milorad Dodik, primo ministro uscente, il solo in grado di ottenere una maggioranza in Parlamento della Repubblica serba; ripercussioni sul complesso quadro politico interno ebbero anche la disfatta militare inflitta alla Serbia dalla NATO al momento della guerra scoppiata in Kosovo nel 1999, la morte del presidente croato Tudjman nello stesso anno, la fine, in Iugoslavia, del regime di Milošević nell'ottobre del 2000 e la vittoria elettorale della coalizione social-democratica-liberale alle elezioni legislative e presidenziali in Croazia del 2000. Frattanto, invece, un arbitrato internazionale stabiliva che la città di Brčko, posta dagli accordi di Dayton sotto l'amministrazione provvisoria serbo-bosniaca, venisse trasformata in un distretto autonomo e interetnico, governato da un'autorità multietnica sotto la sorveglianza della comunità internazionale.

Nell'ottobre 2000, a un mese dalle elezioni politiche, Izetbegović per motivi di salute si ritirò anticipatamente dalla presidenza collegiale, conservando comunque la leadership del partito fino alle nuove consultazioni elettorali che riconfermarono l'affermazione dei partiti nazionalisti a base etnica; la carica di presidente venne affidata al musulmano Zivko Radisiċ. Nessun cambiamento si registrò nella tornata elettorale dell'ottobre 2002, in cui i partiti nazionalisti ottennero ancora la maggioranza dei voti.Nel 2004 il primo ministro serbo bosniaco Dragan Mikerevic annunciò le sue dimissioni, in segno di protesta contro le sanzioni dell'autorità internazionale inflitte alla repubblica serba per la mancata collaborazione con il Tribunale penale internazionale al fine di catturare i criminali di guerra serbi ricercati. Nell'ottobre dello stesso anno il serbo Borislav Paravać venne eletto alla presidenza della repubblica; gli altri membri della presidenza a rotazione sono stati il croato Dragan Čović e il bosgnacco Sulejman Tihić.

Il 2 dicembre avveniva il passaggio di consegne tra NATO e UE alla guida della forza militare internazionale. Alla fine del 2006 si svolgevano le consultazioni per eleggere i tre membri della presidenza e il Parlamento. Il voto premiava i partiti moderati; risultavano eletti alla presidenza Haris Silajdzic per la comunità bosniaca, il socialdemocratico Nebojsa Radmanovic per quella serba e Zeljko Komsic per quella croata. Successivamente Nikola Spiric veniva eletto dal Parlamento primo ministro. Nel 2007 la missione EUFOR ha ridotto la sua presenza a 2500 effettivi.