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#inviaggio | Paesaggi dell’Antropocene
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Foto: A. Molinari ®
Il luogo è insolito. Le Gallerie di Piedicastello a Trento, due vere gallerie che un tempo si percorrevano in macchina e che adesso si possono visitare a piedi, una bianca e una nera, dove vengono allestite mostre e proposti eventi e conferenze. Stavolta l’occasione è quella della mostra Human Habitat, curata dall’Associazione Acropoli, piattaforma per la promozione degli aspetti più innovativi dell’architettura che mette in connessione giovani creativi come architetti, ingegneri e designer, con realtà professionali e culturali. Questo allestimento ne è la prova: fino al 18 luglio 2021, una sezione ulteriore della mostra è ospitata presso il giardino del MUSE a Trento, a dimostrazione delle collaborazioni fruttuose che possono nascere e crescere tra realtà anche molto diverse tra loro.
Visitare questo spazio espositivo, riempito di spunti, infografiche, installazioni artistiche e immagini di indubbio valore per qualità, contenuti e capacità evocativa, è posare uno sguardo ampio e complesso sulla superficie del Pianeta e sui paesaggi che l’uomo disegna, plasma, a volte provoca. Dalla produzione, alla distribuzione allo smaltimento di risorse di vario genere, dal litio alla plastica, dall’acqua all’acciaio, solo per citarne alcuni.
Tutto per esplorare l’Antropocene, o almeno una delle tante sfaccettature di questa proposta definizione per una nuova epoca geologica, in cui l’essere umano, attraverso il suo intenso lavoro, modifica in maniera significativa gli equilibri del Pianeta. Lo fa in particolare attraversando un modello di sviluppo che ha trasformato l’estetica dei luoghi per inserire attività produttive che ci permettono di sopravvivere e prosperare. È un’epoca in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato dagli effetti dell’azione umana.
Il percorso espositivo si articola in tre parti, una con fotografie (sei fotografi emergenti selezionati tra oltre 60 proposte) che espongono i loro lavori supportati da pannelli informativi su progetti di ricerca specifici (filoni della produzione, distribuzione e smaltimento delle risorse); una parte finale che propone la bellezza sconvolgente e minimale delle fotografie di Tom Hegen, artista di fama internazionale che, se non lo si conosce, attraverso queste poche immagini fa capire ampiamente perché se la sia guadagnata. E in mezzo una sezione centrale dedicata a uno spazio immersivo, non solo per la sperimentazione di experience design che spezza il percorso, ma anche e soprattutto per la riflessione sul vocabolario dell’Antropocene, un’era che, indipendentemente dal dibattito che porta con sé, impone una riflessione sui modi possibili per raccontarla, esprimerla. E con lei provare anche a dire il momento che stiamo vivendo.
La mostra raccoglie alcune parole, parole nuove che possono aiutarci a parlare di tempi nuovi. Per esempio biocapacità, ovvero la capacità degli ecosistemi di rigenerare ciò che l’uomo richiede da quelle stesse superfici; oppure sussulto emotivo, cioè un conflitto interiore nel ricevere un gesto gentile ma nocivo per l’ambiente, che si manifesta tramite un sussulto (chi compie il gesto non è consapevole della nocività, mentre chi lo riceve sì); o ancora epoquetude (neologismo nascente dalla fusione tra epoca e quieto), ovvero la presa di coscienza, relativamente rassicurante, per cui l’umanità potrebbe rischiare di distruggersi, ma la terra sopravviverebbe, così come già ha superato molti cataclismi; o morbique (dal latino morbidus, malato), cioè quel desiderio morboso di visitare luoghi, viaggiare, vivere esperienze prima che non esistano più.
C’è però un’altra questione che la mostra lascia aperta, o almeno una tra le tante, ed è questa: abbiamo reso i luoghi e i paesaggi più utili? Più inquinati? Più produttivi? Più brutti? Senza troppi dubbi la risposta è un “sì” a tutte queste domande, tranne forse l’ultima. In effetti la mostra instilla questo dubbio, che è quello che accade quando si guarda al mondo attraverso gli occhi di talentuosi artisti, che suggeriscono prospettive diverse, sguardi originali.
Perché dalla Galleria te ne esci chiedendoti se la tremenda sensazione di muoversi dentro una discarica a cielo aperto, di lavorare nell’hangar di un aeroporto sotto il sole cocente che batte sull’asfalto o ancora di spostarsi tra le tortuose vie d’accesso dei centri di depurazione o dei campi di colture intensive non possa, almeno per un momento, avere in sé qualcosa di spettacolare. Che è forse ciò che appare allontanandosi, alzandosi in volo e planando su questi paesaggi, perdendosi nelle forme e nei colori, opere d’arte che dipingono un mondo che, se non sapessimo molte cose da vicino, sarebbe quasi bello.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.