Turchia e Iran contro il Kurdistan

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Foto: Agreen da Unsplash.com

Il Kurdistan è sotto assedio. Da giorni, in un’inedita alleanza, Turchia e Iran bombardano dal cielo con raid aerei la parte irachena di questo “non-Stato” (sotto tiro di Ankara c’è anche la parte siriana). Intanto nel Kurdistan iraniano prosegue la dura offensiva mirata a cercare di spegnere le proteste pro-democrazia che coinvolgono l’intero Paese dallo scorso 16 settembre. Nella città di Mahabad (300mila abitanti), alla quale sarebbe stata tolta persino l’energia elettrica (internet è già stato oscurato da tempo in tutto il Paese), sono entrati i carriarmati, i pashdaran equipaggiati con armi pesanti (agirebbero casa per casa, sparando ad altezza uomo), mentre nel cielo sono all’opera gli elicotteri militari. Fin dall’inizio delle proteste, il regime iraniano aveva portato in Kurdistan parte della propria aviazione.

Le manifestazioni erano del resto iniziate in seguito alla morte di Masha Amini, la ragazza 22enne curdo-iraniana arrestata da parte della polizia morale per non aver indossato correttamente il velo e deceduta tre giorni dopo in ospedale. In questi oltre due mesi di proteste, secondo le Nazioni Unite, in 25 province iraniane sulle 31 che compongono il Paese, sono state uccise oltre 300 persone (tra cui più di 40 minori). Numeri leggermente maggiori quelli forniti dalla organizzazione non governativa iraniana Iran Human Rights (Ihr), con sede a Oslo, che parla di almeno 378 vittime, tra cui 47 bambini. Gli arresti, ancora secondo l’Onu, sarebbero “migliaia”, tra cui “40 cittadini stranieri” ha dichiarato alla tv di Stato il portavoce della magistratura iraniana, Masoud Setayeshi. Su richiesta di Germania e Islanda, domani si riunirà il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, un organismo con sede a Ginevra che lavora a stretto contatto con l’Alto commissariato Onu per i Diritti Umani (Unhchr). L’obiettivo dell’incontro è valutare l’avvio di un’indagine internazionale sulla repressione delle proteste di massa in Iran.

Dalla notte di sabato, droni e missili degli ayatollah iraniani e caccia turchi del presidente Recep Tayyip Erdoğan stanno compiendo attacchi nel confinante Kurdistan iracheno. Ankara afferma di aver lanciato questa operazione, battezzata Claw-Sword, in risposta all’attentato esplosivo che il 13 novembre ha scosso Istiklal Avenue, centrale e affollata via pedonale di Istanbul, uccidendo sei persone e ferendone 81. Attacco che il governo turco attribuisce al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e alle Unità di difesa del popolo (Ypg) siriane ritenute organizzazione gemella. Entrambe hanno fin dall’inizio negato qualsiasi responsabilità nell’attentato, respingendo anzi l’accusa al mittente. La prima persona sospettata e arrestata per l’attentato di Istiklal Avenue è Ahlam Albashir, la donna siriana che ha lasciato a volto scoperto di fronte alle telecamere di sorveglianza la borsa con l’esplosivo. Dalle prime ricostruzioni sarebbe originaria delle aree tra Aleppo e Afrin, sotto il controllo dei jihadisti usati da Ankara come supporto alle proprie truppe. Subito prima dell’attentato, la donna ha inoltre ricevuto una telefonata da Mehmet Emin İlhan, dirigente del Partito del movimento nazionalista (Mhp), principale alleato di Erdogan nel governo, il quale dopo l’interrogatorio è stato immediatamente rilasciato. Ancora secondo le indagini, Albashir avrebbe ricevuto l’esplosivo da un uomo chiamato Husam, arrestato nella città siriana di Azaz, anche questa sotto il controllo turco-jihadista...

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