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Ricordi. La Jenin di Shireen
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Foto: Merch HÜSEY su Unsplash.com
«Ci siamo resi visibili ai soldati. Siamo rimasti fermi per circa dieci minuti per assicurarci che sapessero che eravamo lì come giornalisti. Non ci sono stati colpi di avvertimento, così ci siamo spostati verso il campo profughi di Jenin». Shatha Hanaysha, giovane giornalista palestinese, ha raccontato così gli ultimi minuti di vita di Shireen Abu Akleh. Lo racconta, nel suo articolo sul manifesto, Michele Giorgio, che precisa come in quel momento fosse in corso un’incursione dell’esercito israeliano a copertura dell’unità scelta Dovdovan entrata nel campo profughi per arrestare un presunto militante armato del Jihad Islami. Testimonianze dirette riportate da Al Jazeera e altri giornalisti parlano di cecchini dell’esercito israeliano sui tetti delle case circostanti. Le autorità israeliane confermano l’operazione militare nel campo e accusano dell’assassinio della nota giornalista palestinese – anche cittadina statunitense – di Al Jazeera ipotetici “terroristi palestinesi”. Qui riportiamo un articolo dello scorso anno, breve ma assai significativo della straordinaria passione con la quale Shireen interpretava il suo lavoro e della Jenin che i suoi assassini non volevano fosse più raccontata così.
Probabilmente è stata una coincidenza a riportarmi indietro di vent’anni.
Quando sono arrivata a Jenin a settembre, non mi aspettavo di rivivere questa sensazione travolgente. Jenin è sempre la stessa fiamma inestinguibile che ospita giovani senza paura che non sono intimiditi da alcuna potenziale invasione israeliana.
Il successo della fuga dalla prigione di Jalbou è stato il motivo per cui ho trascorso diversi giorni e notti in città. È stato come tornare al 2002, quando Jenin visse qualcosa di unico, diverso da qualsiasi altra città della Cisgiordania. Verso la fine dell’Intifada di Al-Aqsa, cittadini armati si sparpagliarono per tutta la città e sfidarono pubblicamente le forze di occupazione a fare irruzione nel campo.
Nel 2002, Jenin divenne una leggenda nella mente di molti. La battaglia che ebbe luogo nel campo in quell’aprile contro le forze di occupazione è ancora potentemente presente nella mente dei suoi abitanti, anche di quelli che quando avvenne non erano ancora nati.
Tornando a Jenin ora, 20 anni dopo, ho incontrato molti volti familiari. In un ristorante ho incontrato Mahmoud che mi ha accolto con la domanda: “Ti ricordi di me?” “Sì”, risposi, “mi ricordo di te”. È difficile dimenticare quel viso e quegli occhi. Ha continuato: “Sono stato rilasciato dal carcere pochi mesi fa”. Mahmoud era ricercato dagli israeliani quando l’avevo incontrato durante gli anni dell’Intifada.
Ho rivissuto quei sentimenti di ansia e di orrore che provavamo ogni volta che incontravamo una persona armata nel campo. Mahmoud è uno dei fortunati; è stato imprigionato e rilasciato, ma i volti di molti altri si sono trasformati in simboli o meri ricordi per gli abitanti di Jenin e per i palestinesi in generale...
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