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Ricordi di una famiglia bellunese
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Foto: Andrew Stutesman da Unsplash.com
La storia della mia famiglia è fatta di viaggi, lunghi e avventurosi viaggi. A volte mi chiedo se è per questo che anche a me piace spostarmi in luoghi lontani, diversi da quelli in cui sono cresciuta. Non so se sia veramente così, ma è comunque bello pensare che in qualche modo quanto vissuto da un familiare possa entrare a far parte del Dna dei nipoti, generazione dopo generazione, influenzandone così i sogni e la vita.
Infatti, dopo qualche mese in seguito all’ultima avventura in giro per il mondo, eccola che torna. Un’idea, un pensiero che non dà tregua. Entra nella testa e martella in continuazione: “è ora di partire, è ora di partire”. In alcuni casi la meta è chiara, in altri meno.
Ciò che è certo è che nel caso dei miei nonni, quando decisero di lasciare l’Italia per il viaggio più lungo che fecero in tutta la loro vita, la destinazione ce l’avevano ben scolpita nella mente. Una certezza dettata probabilmente dalla necessità indifferibile di tracciare una rotta netta verso il domani. Come se fosse quello il loro momento, ora o mai più. In palio, il futuro.
Questa sensazione, chi è nato in seguito agli anni ‘40 e ‘50, probabilmente non l’ha mai provata. Ma al tempo, per molti italiani di quell’epoca, era quasi un’ossessione: partire. Lasciare le terre note, i familiari, i punti di riferimento di sempre, per raggiungere paesi infinitamente distanti e immaginati sulla base di racconti narrati dalle lettere dei primi che se ne andarono.
I miei nonni furono fra quelli che decisero di andarsene, non credo che per loro sia stato facile. Non so se abbiano avuto paura, probabilmente sì. E li ammiro. Quando a me capita di dover partire per uno o due mesi, mi lascio prendere da infiniti dubbi e paure: “E se non dovessi trovarmi bene? E se dovessi stare male? E se dovesse succedere qualcosa a chi resta a casa?”, la lista d’interrogativi è lunga. Ma nel secondo dopoguerra il viaggio era di fatto un evento enorme, epico, e mi domando veramente che determinazione abbia caratterizzato chi decise di partire.
La storia poi ce lo spiega, a molti migranti andò bene, ad altri no. I miei nonni fecero parecchia fatica, non vissero mai nel lusso e lavorarono in continuazione, ma in qualche modo riuscirono a cavarsela.
In seguito al loro matrimonio, i nonni dovettero decidere come far girare l’economia familiare; mio nonno faceva il carpentiere ma nonostante la guerra avesse lasciato un intero paese da ricostruire, edifici, città, oltre che legami e sentimenti, non c’erano le risorse necessarie per farlo. Quindi, prendere quella decisione, non fu troppo complicato.
Le loro prime figlie nacquero così a Rosario, in Argentina. Era il 1947, gli anni delle grandi migrazioni in Sud America. I miei nonni si trasferirono lì, con un piccolo carico di valigie e uno molto più grande di preoccupazioni e speranze.
La vita in Argentina era piacevole, un po’ alla volta il nonno riuscì a trovare un lavoro stabile, in un cantiere edile, e la famiglia iniziò a espandersi. Gli anni passavano e i bambini diventavano grandi vivendo in un contesto italiano a casa, argentino a scuola. Non so bene perché un giorno arrivò la decisione di tornare. Erano passati ormai quindici anni dal loro arrivo, i bambini erano cresciuti a Rosario e dell’Italia non conoscevano quasi nulla, se non qualche piccolo dettaglio carpito dai vari aneddoti raccontati dai genitori. Forse succede che dopo un po’ torna la voglia di casa, quella delle radici, di dove si è nati.
La cosa particolare è che ancora oggi, quando guardo i vecchi album di famiglia, le foto che prevalgono su tutte sono quelle del viaggio di ritorno. Immagini in bianco e nero dei miei nonni e dei loro figli in passeggiata in una delle varie città dove si faceva sosta durante il viaggio attraverso l’Atlantico a bordo dell’immensa Federico Costa. Il Cristo Redentore di Rio de Janeiro, la spiaggia di Copacabana, il mercato Kermel di Dakar, o la piccola piscina della nave, piena di gente in occasione della festa dell’Equatore.
Credo che cambiare contesto di vita così drasticamente, sia un vero e proprio trauma. Partire per un posto ignoto senza la certezza del ritorno e senza la consapevolezza che, mal che vada, puoi comunque prendere un aereo che ti faccia fare marcia indietro. No. Quello è stato un cambiamento permanente, al quale si abbinano le parole “per sempre”.
Si rifecero tutti una nuova vita: nuove scuole, nuovi lavori, nuove amicizie. Ma qualcosa non venne mai abbandonato di quella lunga, indimenticabile, parentesi argentina che plasmò irreversibilmente l’esistenza dei miei familiari. Come l’ora del mate, una bevanda a base di foglie di agrifoglio bevuta generalmente al posto del caffè, un rito che ha accompagnato tutti i miei pranzi di Natale, almeno finché è vissuta la nonna. Non mi è mai piaciuto molto il sapore di quell’erba, da piccola non lo potevo sopportare, neanche con lo zucchero, il suo sapore amaro mi faceva quasi girare la testa. Inizio ad apprezzarlo solo ora, soprattutto quando voglio concentrarmi, e sulla mia scrivania non manca mai un thermos pieno d’acqua bollente e del mate fumante con cui macchio immancabilmente i documenti di lavoro.
Quando cammino per le vie chiassose di Dakar, città dove vivo da ormai molto tempo, mi domando spesso: “Sarà qua che i miei nonni hanno scattato quella foto?”. Mi chiedo che sensazioni abbiano provato una volta sbarcati in Senegal e penso alla strana coincidenza che ha voluto che anche io sia qui, ora, nello stesso paese africano dove camminarono i miei familiari sessant’anni fa. Mi chiedo soprattutto che consigli avrebbe mia nonna per me. Cosa mi suggerirebbe di fare, quando barcollo di fronte a una decisione che non so prendere, a proposito di cammini da seguire o da evitare. Ma questa è un’altra storia, una storia che è ancora troppo presto per essere raccontata, perché deve ancora essere vissuta.
Lucia Michelini

Sono Lucia Michelini, ecologa, residente fra l'Italia e il Senegal. Mi occupo soprattutto di cambiamenti climatici, agricoltura rigenerativa e diritti umani. Sono convinta che la via per un mondo più giusto e sano non possa che passare attraverso la tutela del nostro ambiente e la promozione della cultura. Per questo cerco di documentarmi e documentare, condividendo quanto vedo e imparo con penna e macchina fotografica. Ah sì, non mangio animali da tredici anni e questo mi ha permesso di attenuare molto il mio impatto ambientale e di risparmiare parecchie vite.