PNRR: l’ennesima commedia italiana

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Italy needs to spend more, faster”. Così titolava l’Economist qualche settimana fa, a ricordarci quanto il Belpaese sia già in ritardo sulla tabella di marcia per l’uso dei 191,5 miliardi di euro richiesti all’interno del PNRR. Il commissario Europeo Paolo Gentiloni, responsabile del monitoraggio dei fondi dei paesi percettori, ha sostenuto che se il piano dovesse fallire a causa della negligenza italiana “sarebbe davvero un disastro”, essendo l’Italia il maggior beneficiario dei fondi. Eleonora Poli, capo del dipartimento di analisi economica del Centro per le Politiche Europee, ha rincarato la dose dicendo che il fallimento farebbe evaporare il sogno italiano di convincere i “cattivoni” partner europei a sottoscrivere nuovo debito congiunto, minacciando il cammino di integrazione finanziaria dell’UE. Tuttavia voci di una revisione (cioè fallimento) del PNRR italiano hanno preso forma già da un pezzo, da Bruxelles e dal governo Meloni stesso.

Bruxelles ha già rifiutato di sbloccare la terza tranche di 19 miliardi per l’Italia  - al vaglio da fine dicembre -, a causa della bocciatura di alcuni dei progetti di investimento avanzati, che includono tra gli altri la ristrutturazione dello stadio di Firenze e la costruzione di un complesso sportivo in un sito fuori Venezia, che prevede un nuovo palazzetto per la squadra di basket locale, il cui proprietario è guarda caso lo stesso sindaco di Venezia. Progetti non esattamente di rivitalizzazione di "aree urbane degradate".

Ma, allo stesso tempo, vari esponenti del governo hanno già alzato le mani sostenendo che l’Italia non riuscirà ad allocare tutte le risorse richieste. Raffaele Fitto, Ministro per gli Affari Europei, ha già riconosciuto che alcuni dei progetti che il piano originariamente prevedeva non potranno essere completati entro la fine del 2026, termine ultimo di esborso del PNRR. Parlamentari della Lega hanno proposto di restringere il piano rinunciando ad alcuni dei prestiti (non alle sovvenzioni, ovviamente) insieme agli investimenti legati agli stessi. La linea ufficiale del governo non ha ancora preso in considerazione quest’ipotesi. Ma se i problemi di messa in campo dei progetti persistessero, il ridimensionamento del PNRR sarebbe probabilmente l’unico modo sensato di limitare l’ennesima debacle nostrana.

Ma facciamo un breve passo indietro per rinfrescarci le memoria su genesi e struttura del PNRR. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Recovery and Resilience Plan) è sostanzialmente lo strumento attuativo del programma Europeo chiamato Next Generation EU, i cui obiettivi erano di mettere a disposizione dei paesi europei una notevole quantità di risorse – in totale 750 miliardi di euro - in chiave post-pandemica e in parte anche post-crisi energetica, per la prima volta finanziati attraverso l’emissione di debito comune, cioè sottoscritto congiuntamente dai 27 paesi membri. Questi fondi si suddividono quasi equamente tra trasferimenti a fondo perduto (sovvenzioni che i singoli paesi beneficiari non devono restituire) e prestiti agevolati a tasso praticamente nullo, ma che dovranno essere restituiti. Dei 27 paesi Europei, 20 hanno chiesto il 100% dei fondi perduti ma neppure un euro di prestiti, preferendo non indebitarsi ulteriormente, “visto che non ne avevano la necessità”. Dei rimanenti 7 stati membri, 4 hanno chiesto solo una parte dei prestiti, mentre 3 stati membri (Grecia, Romania e Italia) ne hanno fatto richiesta al 100%.

Dunque, è bene ricordare ai più smemorati, che i fondi totali reclamati dall’Italia, i famosi 191,5 miliardi, da soli valgono praticamente la metà di tutti i PNRR Europei messi insieme. Per questo il possibile fallimento o ripensamento del PNRR italiano sta causando più di qualche notte insonne. Non dimentichiamoci che la scelta di richiedere il jackpot massimo risale al governo Conte, autore di un testo del PNRR a dir poco surreale, al quale Draghi riesce solo a mettere una pezza per evidente mancanza di tempo. Ma al quale decide comunque di aggiungere (con emissione di debito nazionale) circa 30 miliardi di fondo complementare. L’erogazione delle diverse tranche del PNRR sono scandite e vincolate al raggiungimento di obiettivi e riforme promesse (giustizia, PA, concorrenza, appalti, etc.), che in realtà poco hanno a che vedere con le aree di intervento del piano, vale a dire le due macro transizioni: digitale e green/ecologica. Il riacceso dibattito di questi giorni è soprattutto scaturito dall’incertezza e inaffidabilità legate al governo Meloni nella gestione di un piano ereditato, e verso il quale ha evidentemente meno inclinazione rispetto ai suoi predecessori. In parte perché Fratelli d’Italia è sempre stato renitente verso le riforme sollecitate dal piano stesso, come quella sulla concorrenza e sulla liberalizzazione dei balneari, in parte perché inizia ad esserci coscienza dell’incapacità cronica di spesa dei fondi a disposizione nei tempi stabiliti. Considerando che, per esempio, sui fondi strutturali europei  - che sono molti meno - abbiamo un tasso di successo di spesa tra il 50% e il 60%.

In conclusione, alla luce dei fatti e di quasi 3 anni di vita, viene da chiedersi se l’intera operazione PNRR sia stata una misura sproporzionata, dettata da governanti UE in preda al terrore dei primi mesi di pandemia (e forse anche alla credenza tutta da dimostrare che ci fosse una relazione causa effetto tra il cambiamento climatico e la diffusione di virus simil Covid-19), ed alla conseguente necessità di fare qualcosa e subito. Un programma enorme, creato ad hoc per assistere l’Italia, senza che quest’ultima ne fosse minimamente meritevole o pronta, la cui principale conseguenza è stata quella di far schizzare il debito pubblico a livelli record. Gli enti locali, trovatosi con potenziali cifre allettanti tra le mani, hanno approfittato per implementare progetti che avevano in cantiere da tempo, ma decisamente poco coerenti con gli obiettivi del PNRR, che in buona parte comprendono progetti di infrastruttura civile, la cui spinta di produttività marginale è inesistente o molto bassa. Certo, quei pochi che vedranno la luce, a causa degli ingorghi dell’apparato pubblico italiano. Perché, ahimè, non sarà qualche stadio, strada, rotonda o binario in più a cambiare il paese, ma una vera rivoluzione culturale, che abbia al centro risparmio e parsimonia nella spesa pubblica.

Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.

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