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Lavoro, decrescita e cura
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Foto: Avi Richards da Unsplash.com
A differenza del lavoro, la cura può svilupparsi solo in un contesto di reciprocità e di gratuità. E mentre il primo genera sempre più spesso frustrazione e impoverimento, la cura arricchisce chi la riceve e chi la presta. Tuttavia, avverte Guido Viale, assistiamo a una tendenza ad assimilare la cura al lavoro: un approccio che lascia intatta prima di tutto la divisione imposta dal patriarcato. “Nel quadro concettuale definito dalla filosofia e dalle pratiche della decrescita andrebbe invece promosso il movimento inverso: cercare di ricondurre a cura tutto ciò che del lavoro può essere salvato, eliminando progressivamente le attività caratterizzate dall’incuria per gli effetti nocivi che hanno su chi le svolge o sull’ambiente…”
In una precedente discussione su lavoro e decrescita all’incontro Venezia 2022 – Le trasformazioni del lavoro – ho insistito sull’importanza di mantenere ferma la distinzione tra lavoro, da un lato, e lavoratori e lavoratrici, dall’altro. Nel linguaggio sindacale e politico spesso si usa il termine lavoro per indicare il popolo di coloro che lavorano, assegnando al primo i meriti e la dignità che spettano solo ai lavoratori e alle lavoratrici, termini a cui si ricorre soprattutto, o quasi esclusivamente, in occasione di conflitti sociali o quando comunque emergono contraddizioni tra chi lavora e i “datori” – ma meglio sarebbe chiamarli prenditori, o succhiatori – del lavoro altrui.
Il lavoro, a partire dal suo etimo in molte lingue, è sempre stato associato alla fatica e alla sofferenza, che non sono venute meno con l’avvento del capitalismo, che ne ha fatto però l’oggetto di uno scambio, in modo che sia il lavoratore stesso ad auto-infliggersele. In regime capitalistico il lavoro non è che un “fattore della produzione”, una “risorsa” del processo di accumulazione, come lo sono, per l’economia classica, la terra e il capitale (la finanza), a cui in tempi recenti è stata aggiunta l’informazione. La sua caratteristica principale è la subordinazione a una struttura gerarchica, anche quando è mediata dal mercato nel cosiddetto lavoro autonomo; e anche quando si svolge all’interno di un organigramma cosiddetto “piatto”, dove chi comanda non manca mai, anche se non si fa vedere. Ma i lavoratori e le lavoratrici non sono “risorse”, anche se è diventata consuetudine chiamarle così, ma persone: sono esseri umani inseriti in una rete di relazioni. Non solo: spesso è proprio il lavoro a ridurre e ostacolare molte delle relazioni di cui si compone la personalità dei lavoratori e delle lavoratrici.
Visto sotto questa luce, il contrario del lavoro è la cura: il primo si svolge solo nel quadro di una struttura gerarchica di comando, diretto o indiretto, mentre la cura può svilupparsi solo in un contesto di reciprocità. Il lavoro è finalizzato all’accumulazione del capitale e svolto per una remunerazione, nel contesto di uno scambio di mercato. Anche l’utilità dei beni o dei servizi prodotti è subordinata alle leggi di mercato: in regime capitalistico si produce solo ciò che genera profitto. La cura, invece, è contrassegnata dalla gratuità; anche quando è la componente aggiuntiva o prevalente di un rapporto di lavoro remunerato, come accade in (quasi) tutti i cosiddetti “lavori di cura”: dal medico al netturbino, dall’insegnante al giardiniere, dal contadino all’assistente sociale o familiare. La cura riguarda sia le persone, a partire da se stessi, sia le cose, l’ambiente, gli altri esseri viventi, al pianeta; per estendersi anche a ciò che resta al del passato e al futuro che possiamo influenzare.
Il lavoro, quando non è in tutto o in larga parte anche cura, genera frustrazione e impoverisce la persona di chi lo fa controvoglia. La cura invece arricchisce sia chi la riceve – esseri umani, esseri viventi o “cose” – sia chi la presta; ed è per lo più fonte di soddisfazione personale. Un “lavoro di cura” si può effettuare malvolentieri, ma non è cura. La cura vera è sempre il risultato di una scelta volontaria.
Assistiamo da tempo, però, a una tendenza ad assimilare la cura al lavoro (e non viceversa). Innanzitutto, con l’espressione “lavoro riproduttivo”, contrapposta al “lavoro produttivo”: quello che produce reddito, merci, valore, denaro, profitto.
Inizialmente quella espressione era riferita solo alla generazione di nuovi esseri umani, alla loro cura e al cosiddetto lavoro domestico, quelle a cui era tradizionalmente relegata, e lo è tuttora, la maggior parte delle donne. Ma di recente il termine è stato esteso a ogni attività finalizzata alla rigenerazione di una comunità, di un territorio, di una tradizione, di una cultura, del pianeta.
L’intento è quello di attribuire alle attività di cura, a partire da quelle più elementari, la stessa “dignità”, gli stessi “meriti” attribuiti tradizionalmente al lavoro “produttivo” del “breadwinner”: di qui la rivendicazione di un “salario al lavoro domestico”, che in realtà non fa che perpetuare una divisione e una gerarchia di ruoli predeterminati. Il reddito di base, la rivendicazione che sovvertirebbe l’ordine esistente, invece, spetta a tutti coloro che non ne hanno un altro; non a chi fa un determinato lavoro e per il fatto che lo fa...