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La vittima, il persecutore e la necessità della riflessione storica
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Foto: Kaja Sariwating da Unsplash.com
Intere generazioni di studenti hanno completato il loro percorso formativo celebrando il Giorno della memoria. La ricorrenza si è conquistata un suo spazio nell’ambito delle feste civili: un impatto positivo, che non esime però dalla riflessione critica.
Una questione è stata evidenziata dallo storico Gadi Luzzatto Voghera: “Si è trasmesso un modello molto netto vittima/persecutore, ma se nel processo di istruzione non si problematizzano le figure e le situazioni sociopolitiche l’esito è sempre il medesimo: la descrizione di una meta-realtà storica”. Una realtà storica senza sfumature, su cui si può costruire un universo simbolico manipolabile, per cui esistono solo vittime e persecutori: chi si sente vittima si paragona agli ebrei, e i suoi persecutori non possono che essere nazisti. Un abuso della storia, che azzera la storia della Shoah. Dappertutto si vede il “complotto mondiale”, esito paradossalmente simile a quello della tesi negazionista, che all’opposto il “complotto mondiale” lo definisce “ebraico”. Ma in entrambi i casi lo schema interpretativo del mondo è la “macchinazione” da parte del “carnefice”, e la storia è completamente distorta.
Quel che serve è la trasformazione della memoria in conoscenza, in comprensione storica.
Ciò vale anche per un’altra questione. La legge istitutiva del Giorno della memoria ha una lacuna, evidenziata dallo storico Michele Sarfatti: il testo menziona i “campi nazisti” ma non la parola “fascismo”. Condanna “la persecuzione italiana dei cittadini ebrei”, quasi ad additare una responsabilità del Paese in generale, ma è silenziosa sulle responsabilità specifiche del regime. La legge si propone di ricordare i soccorritori, i salvatori di vite. Ma non nomina gli “ingiusti”, i fascisti contro cui i “giusti” si opponevano.
Va studiata la storia tedesca che portò al nazismo, e la storia italiana che portò al fascismo. E la storia di chi si oppose, e che per questo finì nei campi, insieme agli ebrei. Come scrisse Primo Levi nel testo introduttivo “Al visitatore” del Memoriale italiano ad Auschwitz – inaugurato nel 1980, oggi visitabile a Firenze –, “dai primi incendi delle Camere del Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania nel 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto”.
È decisivo studiare il genocidio degli ebrei e di tutti coloro che i nazisti consideravano inferiori – i rom, gli slavi, gli africani – e quindi un ostacolo sulla via della costruzione del popolo perfetto e incontaminato. Solo gli ebrei furono sei milioni: ogni venti secondi uno di loro veniva ucciso.
Ma è decisivo studiare anche la deportazione politica, di chi si oppose al fascismo. Agli oltre 8 mila ebrei deportati dall’Italia si affiancarono 23 mila deportati politici. Vuol dire ricostruire la storia delle culture politiche che approdarono alla Resistenza.
La complessità della storia ci insegna che ci furono “bravi italiani” ma anche “cattivi italiani”.
“Un rifugio vicino al cielo”, di Alba Cantini, racconta la vicenda, tra il 1942 e il 1943, di diciassette ebrei delle famiglie Iachia della Spezia e Lascar di Genova e Torino – tra loro imparentate –, che cercarono di fuggire dall’Italia delle leggi razziali per raggiungere la Svizzera. Ma senza riuscirvi: traditi da un contrabbandiere gli Iachia, respinti dalle guardie svizzere i Lascar. Fu quel che capitò anche a Liliana Segre e ai suoi familiari, che furono arrestati e deportati ad Auschwitz. Salirono su un treno in 605, tornarono in 22. La Segre ha ricordato che gli italiani erano stati i più feroci tra gli aguzzini che si scatenarono contro di lei e suo padre al momento di caricarli sul treno per Auschwitz. Lei scrive che allora scoprì un sentimento nuovo, più forte del dolore: lo stupore. Stupore e vergogna.
Gli Iachia e i Lascar ebbero invece la fortuna di approdare ad Ama, piccolo borgo nelle montagne delle Orobie bergamasche. La zona pullulava di militari della X Mas e di fascisti repubblichini: i rastrellamenti alla caccia dei giovani partigiani o renitenti alla leva repubblichina erano continui. Eppure gli abitanti di Ama mantennero il segreto, e offrirono accoglienza generosa, protezione e solidarietà agli ebrei. Guidati da quel “senso della vita” che emana dalla gente semplice della montagna. Come quelle contadine e quei contadini liguri che accolsero i partigiani e chi aveva bisogno quasi come figli: “quando la gente – ha scritto lo storico Claudio Pavone – sembrava avesse scoperto che l’unico punto d’appoggio rimaneva la fiducia nel prossimo”.
Simonetta Della Seta, collaboratrice dello Yad Vashem di Gerusalemme, a proposito della trasmissione della memoria ha scritto: “È il momento di raccontare non solo le atrocità ma anche di documentare la vita. Mostrare la forza che è stata necessaria per salvare se stessi e gli altri. Non bisogna solo impaurire i ragazzi, è necessario offrire loro gli strumenti per credere nella vita e nell’essere umano, nonostante tutto. Io credo sia importante mantenere una dimensione etica e storica di quello che è successo. Nelle testimonianze c’è tanta vita, non c’è niente da inventare”.
Nella complessità della storia del Novecento non ci sono solo gli stermini, c’è anche la spinta possente per la liberazione personale e collettiva...
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