www.unimondo.org/Notizie/La-scrittura-e-la-nostra-orma-sul-mondo-229233
La scrittura è la nostra orma sul mondo
Notizie
Stampa

Alfredo Rapetti Mogol - Foto di Stefano Ferrante ®
“La parola è la radice di tutto il mio lavoro”, con questa frase Alfredo Rapetti Mogol, in arte Cheope, inizia a parlare del significato che ha per lui la parola e riferendosi a chi lavora nella comunicazione, dice: “io credo che chi tenta di comunicare le proprie emozioni agli altri deve riconoscersi in quello che fa”. L’artista milanese continua, e con sentimento, si racconta: “nella pittura mi sono riconosciuto 25 anni fa, prima”, chiarisce, “dipingevo qualcosa vicino all’espressionismo tedesco, quando poi ho iniziato in modo spontaneo a fare dei segni su delle vecchie assi di legno che appartenevano all’armadio di mia nonna, lì”, confessa, “iniziando a scriverci sopra, mi sono riconosciuto in modo naturale”.
Il risultato, o meglio, il prodotto d’arte che una persona crea, alla fine, deve avere la forza di rappresentarla “e io”, dice sorridendo il ‘nostro’ pittore, “attraverso la parola mi sono trovato finalmente rappresentato anche nella pittura, oltre che nella parola cantata”.
La parola, dunque, è il volante che Alfredo Rapetti Mogol tiene in pugno per restare su quella che sente essere la strada della sua vita.
Un volante che lui gira a destra o a sinistra a seconda delle indicazioni fornitegli dalla voce silenziosa del suo GPS interiore, più comunemente chiamato cuore. “La storia del mondo senza la scrittura non ci sarebbe”, afferma ragionevolmente l’intervistato, “e senza di essa non avremo conoscenza di noi stessi, non sapremo chi siamo, da dove veniamo”, poi, precisa, “tutte le cose importanti della vita sono scritte. Da una lettera d’amore a un testamento”, dice, “da un atto di matrimonio a un atto di morte”. E ancora, ci pensa un po' e sorridendo continua ad elencare, “anche comprare una casa, darsi un luogo dove abitare, anche qui c’è bisogno della scrittura”.
“La scrittura è un segno”, esclama a voce piena, “perché in qualche modo ci dà delle indicazioni profonde sul carattere della persona e io”, parlando di lui, “ho lavorato a fondo sulla scrittura a mano libera”.
È una testimonianza preziosa quella di Alfredo Mogol perché in un’epoca dove tutti scrivono si sta perdendo, paradossalmente, un lato sacro della scrittura. Sacro nell’accezione antica del termine. Sacro come quel solco da dove tutti veniamo, fatto di ragione e di follia. Un posto perduto e presente, più antico dei mari e delle stelle. Un luogo invisibile, dove non sono ammesse le differenze.
“È l’epoca della scrittura”, come si stava spiegando, “però non si scrive quasi più a mano” e sebbene il contenuto, si sa, sia importantissimo, il fatto di non incidere più il proprio segno sul foglio fa si che si vadano a perdere “queste informazioni subliminali, informazioni da intertesto, sotterranee, che sono date dal modo in cui si scrive” e veicolate, appunto, dal segno, che per il ‘nostro’ grande autore è “come l’orma per gli animali”, sostiene: “il segno è la nostra orma sul mondo”. In altre parole: è quello che lasciamo.
La parola cantata, diversamente da quella scritta, “è una parola che si muove, che non sta mai ferma”. È interessante riflettere su questi pensieri detti ad alta voce da chi voce in capitolo ne ha, perché spesso, ascoltando una canzone, diamo per scontato di vivere un sogno attraverso di essa, ma una canzone, se ci pensate, come intelligentemente spiega Cheope, “non la puoi rileggere dunque ha bisogno di una leggibilità immediata, di un passaggio molto logico”. Significa che quello che ascolti devi vederlo. E per risolvere questa complessità un autore deve, attraverso le parole, fornire delle immagini. Le immagini formate dalle parole nelle canzoni sono come quei coni di tessuto a righe rosse e bianche appesi in cima a un’asta nei pressi degli aeroporti grazie ai quali, in base a quanto si gonfiano, si riesce a vedere il vento. Sì, perché una canzone è fatta di parole scritte nell’aria. “E noi”, continua a spiegare Cheope sul suo prezioso lavoro, “la canzone la ascoltiamo con un solo senso: l’udito, poi le altre cose vanno tutte evocate. Nella parola dipinta invece, “hai la possibilità di rivedere il quadro”, poi afferma quasi come una preghiera, “sei aiutato dal silenzio”.
Sono due cose opposte, ma per Alfredo Mogol una cosa aiuta l’altra: se la parola disegnata è il suo canto, incidere parole sul muro del suono è la sua scoperta. Sì, perché come egli sostiene, “il suono produce parola”. La musica, racconta l’intervistato, “si può leggere emotivamente”. Poi chiarisce: “il suono da solo ti riporta una parola e da lì incominci a mettere un piede, a mettere un chiodo sulla parete che devi scalare”.
“Da un suono”, pare una magia e una magia probabilmente è, “ti può venire in mente tutta la canzone, o da una sola frase può nascere una canzone”. Un po' come dice suo padre, “l’arte è figlia del cielo”, l’arte, e qui riprendo le parole di Alfredo, ti arriva”. Ed è in questa posizione, ovvero il luogo dove arriva l’arte, che si colloca l’artista. “Il problema”, come lui crede, “è allenarsi a interpretare i segnali”, in altre parole, usando sempre quelle di Alfredo, “il problema è trovare le cose quando per gli altri non ci sono”.
Quest’ultimo pensiero è molto vero e – secondo la mia opinione – ha un valore che è ora di divulgare, perché alla fine, continuando a citare la sensibilità di chi sta parlando, “tutto quello che ci passa davanti agli occhi diventa materia”.Tutto è potenzialmente materia da creare, ma la grande questione sulla quale riflettere non è tanto chiedersi da dove arriva questa potenziale meraviglia, il quesito “non è dove si trovano le cose ma è dove si portano le cose”.
Semplificando, quello che creiamo può avere origine ovunque, in una frase sentita in un documentario dopo cena in onda su La7, nella scritta di una pubblicità stampata sul retro di un camion in autostrada, nell’esclamazione di un bambino. Tutto può essere, la sfida è portare in essere.
Questo perché “la parola, la cultura e il sapere sono delle macchine evolutive per i popoli anche spiritualmente”.Sono tutte e tre dei fenomeni che, in qualche modo, “ci rendono migliori e quando trovi la parola giusta per descrivere, qualcosa si rivela”, sottolinea poi il grande artista, “certe volte anche in modo diverso”.
Questo significa che attraverso le parole ci conosciamo, esse sono dei pezzi colorati a nostra disposizione: più ne conosciamo e meglio le sappiamo usare, più chiaro sarà per noi il mosaico dell’Universo. Più ci sarà permesso di descrivere la bellezza che, per l’autore, “si incarna in ogni cosa del mondo”.
E davanti a dei fenomeni come il colore del glicine, i cinque petali di un gelsomino che vanno a formare delle piccole girandole bianche che rilasciano profumo. Davanti al fiore dello zafferano, fuori viola e dentro giallo, magari cresciuto fra la neve, ci si chiede come sia possibile. “Il giorno, la notte, la vita, la morte. La perfezione, la bellezza di tutto questo rende difficile negare il divino”, e la parola, come dicevano gli antichi greci, è stata data all’uomo per distinguerlo dalla bestia. Ecco perché, forse, avendo cura delle parole, usandole con cuore e con giudizio, possiamo contemplare, e dunque omaggiare, noi stessi e tutta l’esistenza.