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La politica smetta di anestetizzare il conflitto
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Foto: Pexels.com
«Dobbiamo ripartire dal conflitto. Tornare a ragionare sulla parola conflitto. È controintuitivo, perché a volte crediamo che conflitto sia l’opposto di pace. Invece credo ci sia necessità di ri-ragionare sul valore del conflitto perché troppo spesso evitiamo di discutere le differenze e le divergenze, tenendo nascoste le posizioni conflittuali. Evadere il conflitto può portare a una gestione violenta di esso, mentre la politica è gestione del conflitto con una modalità non-violenta. Una gestione politica del conflitto è fondamentale per costruire comunità di pace, mentre la guerra è il fallimento della gestione non-violenta del conflitto». Andrea Ruggeri, professore di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all’Università di Oxford e Direttore del Centro studi e relazioni internazionali della stessa università parte da qui per rilanciare percorsi possibili di pace.
Se per la politica e per le comunità gestire il conflitto è questione cruciale, perché questa capacità è stata così trascurata?
Noi abbiamo creato diverse pratiche e istituzioni proprio per essere in grado di mediare i conflitti. La democrazia nel suo aspetto più fondamentale è proprio gestione del conflitto, non meramente rappresentanza degli interessi. Attraverso tragiche esperienze storiche siamo riusciti a trovare modalità - le elezioni - in cui possiamo concedere ad altri di essere vincitori per un periodo limitato. L’idea di base è pensare che non si può sempre essere dalla parte del giusto, ma di accordarsi su come si possa essere temporaneamente vincitori o temporaneamente perdenti. Non possiamo essere tutti “dalla stessa parte”, è impossibile. La realtà è che ci sono posizioni e interessi economici diversi e una società pluralista deve ammetterlo altrimenti si creano marginalizzazioni e ineguaglianza e queste due cose rischiano di portano a un conflitto violento. Negare il conflitto - inteso appunto come diversità di opinioni, di status sociale ed economico, ineguaglianze - spesso significa mettere a rischio la pace. Farci credere - come fanno il discorso nazionalista e parte delle recenti narrazioni populiste - che ci sia una volontà popolare unica ed omogenea, con interessi e bisogni convergenti, accanto a cui esistono soltanto minoranze parassitarie e che una volta eliminate queste tutto andrà bene, è rischiosissimo. Uno dei problemi fondamentali della politica oggi, sia all’interno di un paese sia fra paesi, è proprio aver cercato di anestetizzare la discussione politica, è la difficoltà di esplicitare e voler gestire il conflitto: c’è una volontà di elusione e procrastinazione del conflitto ma eludere e procrastinare vuol dire perdere possibilità di mediazione. E una possibilità di mediazione persa, porta a esacerbare il conflitto. La tendenza a non voler affrontare le tensioni conflittuali, anestetizzando il dissenso, è una delle sfide principali che chi crede nella pace e non-violenza oggi deve affrontare. Alcuni studiosi sostengono che il conflitto deve essere fomentato, che la dinamica della democrazia è questa. Io dico una cosa più semplice: dico che bisogna riconoscere l'importanza del conflitto, non fomentarlo necessariamente, e tornare a valorizzare le diversità dentro la cittadinanza. Perché il riconoscimento del conflitto è la premessa per mediarlo.
Uno dei problemi fondamentali della politica oggi, sia all’interno di un paese sia fra paesi, è proprio aver cercato di anestetizzare la discussione politica, è la difficoltà di esplicitare e voler gestire il conflitto: c’è una volontà di elusione e procrastinazione del conflitto ma eludere e procrastinare vuol dire perdere possibilità di mediazione. E una possibilità di mediazione persa, porta a esacerbare il conflitto. La tendenza a non voler affrontare le tensioni conflittuali, anestetizzando il dissenso, è una delle sfide principali che chi crede nella pace e non-violenza oggi deve affrontare.
Ma a che condizioni e fino a quando è possibile la mediazione non-violenta di un conflitto? È un po’ questo il dilemma oggi, anche per il pacifista.
Effettivamente quando si è rotto un rapporto che prima era non-violento, la mediazione diventa difficilissima, perché un aspetto fondamentale della mediazione è capire le ragioni delle parti: non condividere le ragioni, ma capirle sì. Se tu vuoi mediare, puoi anche non essere d'accordo con le posizioni dell'altro ma devi ammettere che le posizioni estreme e assolute non esistono. Quando si assolutizzano le posizioni, il conflitto non è più dialettico e volto alla ricerca di una mediazione, ma diventa qualcosa di fine a se stesso, quasi una spettacolarizzazione delle reciproche posizioni. Fino a che punto si può mediare? Fino a quando le richieste dell'altro non eliminano aspetti fondamentali dell’individuo, la vita in primis. Nel momento in cui la richiesta è l’eliminazione di individui – storicamente sono esistite queste richieste, ad esempio nel genocidio in Rwanda – lì la mediazione non può esistere. Perché ci sia mediazione, bisogna restare all’interno di parametri di dignità delle parti: nel momento in cui si entra nella logica dell’umiliazione, del rendere l’altro inumano, non c’è spazio per la mediazione. Né quando si porta il conflitto al livello della universalità, dell’astrazione, della sacralità, dell’indivisibilità...