La poesia cura

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Lunedì scorso era la Giornata Mondiale per le Malattie Mentali e, parlando di “giornate dedicate”, gli argomenti che esse rappresentano dovrebbero essere oggetto di pensiero anche, ad esempio, dopo una settimana dalla loro celebrazione. 

Sono giornate che, paradossalmente, non andrebbero consumate nel giro di 12 ore. E pensando a quella di lunedì, c’è da dire che il tema è paragonabile a una giacca pesante, di quelle imbottite e lunghe, un po’ larghe, usate per nascondere, come le mura di una casa disabitata, lo sfascio che può celarsi all’interno. 

Questo perché viviamo in un mondo che ha perso anche la poesia, in un pianeta dove non c’è più cura per l’interno, per quello che si potrebbe vedere al di là di una forma. Viviamo in un mondo dove non si presta attenzione nemmeno a quello che si vede camminando. Torquato Tasso diceva che “nell’ozio l’amor sempre germoglia”. E noi viviamo in una società scarica d’amore, e carica di timore; che ha dimenticato, ormai, l’abilità di fermarsi per imparare ad osservare quello che si vede ma non c’è.

E in questo cimitero di fratellanza la poesia serve. Non a tutti, ma sicuramente a tanti. Perché la poesia si prende cura dell’essere umano: essa agisce sia in chi la scrive sia in chi la legge.

Quest’ultima frase dovrebbe bastare a spiegare l’affermazione “la poesia cura”. Argomentandola invece, lasciando la piacevole brezza della semplicità per addentrarsi nel granitico labirinto della complessità, si può sostenere che da un secolo a questa parte, grazie al prezioso contributo filosofico, e dunque concettuale, di Heidegger, il nostro linguaggio – e di conseguenza il nostro pensiero – si è avvicinato alla parola “cura” intesa come “prendersi cura di sé” e dell’altro, un tempo concepita soltanto nell’accezione di procurare un rimedio, o qualcosa di utile, a qualcuno.

In questo nuovo concetto di “cura” si riversa l’elemento umano. Quel liquido sensibile che va a riempiere l’elemento fisico. Quella vita chiamata “extrasensoriale” e che, si sa, determina la salute di un individuo, condizionandolo. Possiamo cercare di definire questa realtà attraverso diverse arti, ma, e qui uso le parole di Jim Morrison, “la suprema arte è la poesia, poiché ciò che ci definisce come esseri umani è il linguaggio”.

Il custode del linguaggio, dacché si ha memoria, è il poeta. Una tipologia di essere umano che rinuncia alla propria razionalità per intercettare qualcosa al di fuori di essa, e restituirla al mondo sotto forma di poesia. Di cura, appunto. 

La missione extra gravitazionale del poeta è una necessità, la stessa che porta un chirurgo a tagliare una persona. Mettiamola così: se il chirurgo taglia un corpo, il poeta ne cuce l’anima, e, la poesia, oltre ad avere un approccio chirurgico alla lingua, è uno strumento per agganciare i fenomeni inconsci e portarli, attraverso le parole, a una dimensione sensoriale.

Per mezzo di una poesia, una persona può ricongiungersi a qualcosa di sé mancante e che, chissà dove, esisteva già. 

La poesia, dunque, è uno strumento sacro e il poeta, di conseguenza, è un sacerdote della lingua. La poesia – e qui spiego meglio la sua sacralità - è come la colla che unisce due cocci di un piatto di porcellana rotto a metà. È quella linea frastagliata, che congiunge. È lo spazio sacro che unisce quello che è, con quello che era e sarà. In questo modo, raccontando l’universale, essa interviene nella vita interiore, o in termini più tecnici, nella disposizione emotiva dell’essere umano, traghettandolo sulla rotta della comprensione della vita. Aiutandolo, in finale, a trovare la propria dimensione nel mondo, o più poeticamente, la luce dove cercare se stesso.

Francesca Bottari

Sono nata a Cles il 15 settembre 1984. Dopo essermi laureata in Lingue e Culture dell’Asia Orientale a Venezia, ho vissuto in Cina e in altre nazioni. In passato mi sono occupata di giornalismo e di inchieste. Oggi vivo a Bassano del Grappa, dove ogni giorno mi alleno a vivere scrivendo poesia: francescabottari.it

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