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Il buio oltre la giunta
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Foto: Atlanteguerre.it
Il buio fitto che avvolge il Myanmar non è solo una metafora. A Yangon o a Mandalay, in uno sperduto villaggio o in una metropoli, il buio avvolge il Paese durante tutte le ore in cui il sole sta facendo il giro del pianeta. I blackout sono sistematici e, per dirla tutta, non ci si stupisce quando la luce va via ma quando viene riattaccata. Il paesaggio è spettrale. “Non ti avvisano nemmeno: non c’è una logica – racconta un albergatore – non c’è un orario. Oggi si, domani no, oggi per tre ore al mattino, ieri per tre ore alla sera”.
Le tenebre si allungano anche sulle elezioni, posticipate di semestre in semestre. Con una novità. Il partito di Aung San Suu Ky ne è stato estromesso (con altre decine) per non essersi ri-registrato. Una beffa. In realtà il riconoscimento del governo clandestino di opposizione continua a languire in un limbo, benché la messa al bando definitiva di 40 partiti politici birmani tra cui la Lega nazionale per la democrazia di Suu Kyi è stata condannata da tutto il fronte anti giunta: dall’Unione Europea agli Usa, dal Giappone all’Australia. Ma ci si limita a invitare i militari a riconoscere come interlocutore il National Unity Government, benché la giunta lo abbia appena tacciato di “attività terroristiche”.
A Mandalay, la seconda città del Paese, c’è luce per 12 ore. Un record. Nel visitare questa città simbolo della resistenza alla giunta militare viene spontaneo raggiungere l’intersezione tra la 30ma e la 73ma strada. Da una parte c’è l’imponente Ospedale pubblico. Dall’altra, in celeste chiaro, svetta la Facoltà di Medicina: son stati proprio dottori e paramedici a tener duro contro i golpisti del 1° febbraio 2021. E con loro gli studenti. Ora la città è tranquilla: fa parte di quella fascia di sicurezza che il regime garantisce sull’asse Yangon-Naypyidaw-Mandalay, dove passa l’autostrada lungo l’Irrawaddy. Ma fuori di lì…: “Ho attraversato da Ovest a Est senza incidenti – mi racconta un residente – lungo la strada che da Pyay va a Mandalay passando da Magway. Ogni 15 minuti c’è un check-point. Un viaggio pagato pure caro”. Costa caro, dice, anche agli autisti: “A ogni blocco militare, i verdi fanno una sommaria verifica dei passeggeri mentre l’autista fa scivolare un biglietto anche solo da 500 kyat”. Sono, al cambio ufficiale, circa 20 centesimi di euro. Ma il flusso di camion e autobus è continuo. Un salasso per gli autisti, una macchina che ingrassa Tatmadaw, com’era chiamato il regio esercito birmano. Adesso è solo: Sit Tat (militari) o “green” (verdi), se ne parlano a uno straniero.
Forza e debolezza di un regime
Min Aung Hlaing, il capo della giunta, è fortemente convinto del suo ruolo. Alla parata del 27 marzo scorso nella capitale ha pronunciato un discorso dai toni poco concilianti. Il paradosso è che pur accusando il governo clandestino (Nug) di terrorismo, ha menzionato le parole democrazia e federalismo. Sulla prima niente da dire, non c’è dittatore che non la pronunci. Ma “federalismo” è stato sempre un tabù fino a che Aung San Suu Kyi non ha sdoganato il termine. Che Min Aung Hlaing lo riprenda, mostra il tentativo di convincersi e convincere le milizie “etniche” in capo alle varie autonomie regionali che una pace con loro (non certo col Nug) è possibile...