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Gestire il potere: ci sono differenze tra uomini e donne?
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In foto: Barbara Poggio
Gestire il potere: ci sono differenze tra uomini e donne? Il linguaggio che ruolo ha, se ne ha uno? Ne abbiamo parlato con la professoressa Barbara Poggio, Prorettrice alle politiche di equità e diversità dell’Università degli Studi di Trento.
“Non bisogna votare le donne in quanto donne ma premiare il merito”. Cosa c’è di vero e cosa stona in questa affermazione?
In linea di principio è difficile non essere d’accordo. Quello che non si capisce è come mai questa continua sottolineatura rispetto alla meritocrazia venga fatta solo quando si tratta di votare le donne, mentre la mediocrità è più facilmente perdonata agli uomini. Forse possiamo capovolgere il ragionamento: il punto non è tanto essere incluse in quanto donne, ma piuttosto non essere escluse in quanto donne. Secondo i dati, infatti, mediamente le donne studiano di più, con risultati migliori, ed affrontano l’impegno politico con una maggiore preparazione; perché a fronte di questo continuano ad essere statisticamente e sistematicamente sottorappresentate nei ruoli decisionali?
Contesti decisionali: esistono leadership maschili e femminili?
Su questo c’è ormai diversa letteratura e anche posizioni divergenti. Sulla base della mia esperienza di studio e di ricerca in questo ambito, non direi che esiste una differenza naturale nei modi in cui uomini e donne esercitano la leadership. È possibile però riscontrare alcune differenze che possono essere spiegate facendo riferimento più ai diversi modelli di socializzazione che non a caratteristiche naturali: le donne presentano più facilmente modelli di leadership meno coercitivi, più inclusivi, lavorano in team, seguono modelli che valorizzano le relazioni. Ma questo va appunto letto facendo riferimento a dimensioni culturali, anche perché dalle donne ci si attende maggiormente e si accettano più facilmente atteggiamenti meno assertivi.
Con le dovute eccezioni.
Sì, infatti, ci sono anche situazioni in cui le donne, proprio per essere accettate in contesti fortemente maschili tendono ad allinearsi a modelli più tradizionalmente maschili, esercitando stili di leadership ancora più rigidi. Un caso classico è quello di Margaret Thatcher, ma anche la nostra attuale premier mi sembra vada un po’ in questa direzione.
Da sempre ti occupi di questi temi. Hai visto un cambiamento negli anni?
Mi pare che adesso siano più presenti nel dibattito pubblico, nella società c’è oggi una maggiore consapevolezza; i movimenti di protesta più significativi degli ultimi decenni sono spesso nati dalle donne o spinti dalle donne. Certo, a questo tipo di cambiamenti può corrispondere una contro-reazione. Penso in particolare a quanto si è osservato in paesi a guida sovranista, dove si sono affermati modelli di leadership centrati sul culto della virilità e dell’autoritarismo. Da Trump a Orban e Putin, figure orientate a riproporre modelli del passato. Peraltro, questi modelli di leadership hanno avuto implicazioni problematiche su vari fronti, a partire dalla gestione della pandemia.
In che senso?
Durante la crisi pandemica ci si è chiesti quali fossero i paesi più virtuosi, che stavano gestendo meglio la pandemia. Le analisi condotte hanno messo in luce che i paesi che stavano reagendo meglio erano quelli a guida femminile, che da un lato si sono mostrati più in grado di tenere conto delle diversità presenti nella popolazione, e dall’altro hanno saputo gestire con più coerenza e attenzione le procedure di prevenzione e tutela.
Secondo te hanno pesato anche gli stereotipi maschili?
Sì, per molti leader è entrato in gioco il bisogno di corrispondere agli stereotipi dominanti della maschilità; da Trump, a Bolsonaro, a Lukashenko, fino anche a Johnson, i leader sovranisti non potevano mostrarsi deboli nei confronti del virus e quindi c’è stata una tendenza a sottovalutarlo o addirittura a negarlo. Anche in questo caso si tratta di una questione culturale.
Governi sovranisti e conservatori, eppure spesso sono proprio i partiti di destra a far eleggere le prime donne per cariche importanti. Come mai?
Sembrerebbe un paradosso, in realtà non lo è. Un volto femminile può presentarsi come più rassicurante per un elettorato moderato, che magari potrebbe avere qualche remora a votare partiti che in passato hanno promosso modelli autoritari e virilisti. Al tempo spesso queste donne si impegnano a confermare la loro piena adesione a una visione tradizionale dei rapporti di genere. Nel caso italiano è interessante l’enfasi - apparentemente contraddittoria - della nuova premier sul fatto di essere donna e madre e al contempo la sottolineatura sull’uso del maschile (“il presidente”), ma può appunto essere letta in questa cornice. Peraltro, queste donne si presentano spesso come le eccezioni che confermano la regola.
Ed i partiti di sinistra? Come si posizionano?
A sinistra la situazione è un po’ diversa, perché la presenza delle donne in posizione di leadership è percepita come meno rassicurante già dagli stessi uomini che militano in quest’area. Anche se la parità di genere è un’istanza dei partiti di sinistra, all’interno di questo mondo si possono riscontrare visioni e pratiche tradizionali rispetto al genere. La visione di un mondo più paritario di cui spesso le donne di sinistra sono portatrici, e le istanze legate al femminismo e ai diritti in cui più facilmente si riconoscono possono essere percepite con una certa apprensione e resistenza anche all’interno dei loro stessi partiti.
Possiamo dire che donne di destra portano un qualche elemento di frattura, ma non troppi.
Sicuramente una donna presidente del consiglio è una parziale novità nella forma; ma – almeno per quanto abbiamo visto finora - non sembra esserlo nella sostanza, nei programmi, nei modelli e soprattutto nel modello simbolico nell’ordine culturale che porta avanti.
La nostra presidente del consiglio ha chiesto di essere nominata al maschile. Come la vedi?
Le parole costituiscono la realtà, utilizzare il femminile per nominare una donna che ricopre un ruolo istituzionale - come d’altra parte richiederebbe la grammatica italiana - non è una questione irrilevante. D’altra parte, se davvero lo fosse, non ci sarebbero resistenze così rigide. Me ne sono resa conto anche nel mondo universitario: delle molte iniziative di cambiamento portate avanti in questi anni, quella sul linguaggio è stata una di quelle che ha incontrato maggiori resistenze, a partire da cambiamenti apparentemente insignificanti come l’appellativo da utilizzare nelle comunicazioni. Originariamente nelle mail si usava scrivere “egregio professore, gentile professoressa” e si è pensato che questa distinzione non andasse bene perché egregio e gentile hanno due significati diversi. Ma quanto si è proposto di usare solo gentile c’è chi si è risentito, sentendosi sminuito.
Come mai tante resistenze secondo te?
Da un lato la consuetudine culturale: si è sempre fatto così, il cambiamento è faticoso – da qui il “non mi suona bene”; questo anche per parole che storicamente venivano utilizzate, come avvocata. Poi c’è l’aspetto che riguarda le donne che rifiutano l’uso del femminile. In un mondo il cui ordine simbolico di genere è dominato dal maschile, per chi arriva in posizioni di rilievo usare il femminile può essere in qualche misura percepito una diminutio. Il sottotesto però è: “il femminile vale meno”. Questo è un po’ un peccato, un’occasione persa.
Qualcuno dice che ciò che conta è come si fa il lavoro, il resto è irrilevante.
Ci si scontra sempre con il benaltrismo, però è un gioco un po’ sporco. Chi l’ha detto che fare attenzione al linguaggio non consenta di lavorare simultaneamente su altri fronti? Il punto è che si tratta di questioni complesse, che non hanno soluzioni semplici e soprattutto non hanno una sola soluzione: il problema va affrontato da più lati. Il linguaggio è uno di questi, ma non è che utilizzare la lingua italiana in modo corretto e rispettoso delle differenze, valorizzando l’esistenza delle donne (perché solo quando si è nominati si esiste), impedisca di lavorare per l’equità di genere anche con altre azioni. In realtà, il continuare a sottolineare che i problemi sono altri è solo un modo per continuare a giustificare l’esistente e resistere al cambiamento.
Novella Benedetti

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.