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Digital storytelling. Un progetto per raccontare la pace
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Foto: Instagram.com
Il progetto di digital storytelling per la giustizia e la pace sostenibile del programma World Social Agenda, un progetto di Fondazione Fontana, è nato dall’idea che la storia possa essere raccontata da altri punti di vista. È stato realizzato da studenti e studentesse di alcune città venete e trentine come Padova, Abano Terme, Este e Rovereto. Sono state coinvolte tutte le tipologie di scuole secondarie di secondo grado, licei, tecnici e professionali.
Al centro di tutto il desiderio di costruire una contro narrazione al dominio dell’informazione che spettacolarizza guerre e conflitti: storie di pace è l’hashtag con il quale queste storie stanno sbarcando su Instagram. La socializzazione vorrebbe essere virale, ma stenta a farsi strada perché si parla di pace e perché questa storia non è certo mainstream.
Perché dunque quando “c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no, o non a pieno titolo - come se la pace fosse un dono della fortuna o un vuoto tra una guerra e l’altra”? si chiede Anna Bravo ne La conta dei salvati, dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, 2013, p. 14. Questa malsana convinzione va smontata per far spazio ad un’altra idea, quella che la storia di pace sia la storia, frutto di un lavorio umano, anzi quel lavorio stesso in cui tutti e tutte siamo implicati con le nostre scelte e con le nostre azioni. La pace si fa con la pace: non c’è altro strumento. E c’è qualcuno che se ne fa carico, da sempre, nonostante il silenzio generale. Le bombe fanno certo più rumore, ma una volta esplose generano solo morte e vuoto. Le storie di pace invece non fanno alcun rumore, ma quando toccano terra diventano contagiose e i frutti del lavoro di uomini e donne per costruire un mondo più umano, solidale e inclusivo si moltiplicano.
Oltre un migliaio di giovani nelle vesti di “giornalisti e giornaliste” in erba si è cimentato con interviste e redazione di profili biografici sfidando il lavoro autonomo, la discesa in campo, le relazioni con un mondo adulto appartenente a contesti di vita e professionali lontani, almeno per molti e molte dei ragazzi e ragazze coinvolti.
Persone che lavorano all’estero nella cooperazione internazionale per conto di enti o organizzazioni nazionali o per piccole associazioni come medici, infermieri, agronomi, ecc. o religiosi e religiose impegnate in missioni evangeliche di pace. Difensori e difenditrici dei diritti umani, giornalisti e giornaliste, ricercatori e ricercatrici, volontari e volontarie impegnati nella costruzione di un mondo migliore, nella tutela dei diritti per tutti e tutte; politici e politiche, analisti e analiste, matematici, fisici, insegnanti, educatori ed educatrici, un mondo attivo per il disarmo, impegnato nella costruzione nonviolenta della pace. Persone che dall’Italia si occupano di educazione e formazione e portano la pace e i diritti umani come uniche poste in gioco per il futuro dell’umanità. Sono state queste persone i soggetti degli incontri, gli interlocutori ed interlocutrici sottoposti ad intervista: di loro sono state raccontate le vite e qualche stralcio di esperienza. Il loro impegno di pace ci ha portato in giro per l’Italia, in Congo, Palestina, Ucraina, Ecuador, Libano, Iraq, Kenya, Etiopia, Eritrea, Camerun, Turchia, Argentina, Ruanda e in tanti altri paesi e luoghi… il filo delle storie intreccia il mondo.
È stato un percorso durato qualche mese, prima dentro le questioni, i temi, i contenuti rispondenti alle grandi domande: “cos’è la cooperazione internazionale”? “cosa vuol dire nonviolenza” “chi sono i difensori dei diritti umani?” e poi fuori, sul campo di lavoro, dentro le storie. Un altro modo per fare informazione che è andato ad intercettare in diretta e a scontrarsi con quanto stava avvenendo nel giornalismo “ufficiale” che da febbraio ad oggi è impegnato a raccontare il conflitto alle porte dell’Europa.
Pace è stata la parola che ha contraddistinto tutto il lavoro educativo; costruire la pace è stato l’obiettivo ambizioso. Quasi come un mantra è stato ripetuto che “l’unica pace possibile si fa con la pace!” anche se attorno a noi il mondo stava andando da un’altra parte giustificando l’invio di armi, sostenendo la risposta armata alla violenza, guardando la storia con un occhio solo e dimenticando totalmente il lavoro della società civile e i movimenti di pace in Ucraina, ma anche in Russia, come nel resto del mondo e costruendo ovunque nemici al fine di diffondere paura, ansia, terrore.
Raccontare storie di pace è stato come creare un antidoto contro gli spettri della guerra e di un mondo che erige muri, falcia vite umane e recide le speranze di futuro. Ma anche un modo per contribuire alla realizzazione dell’ambizioso obiettivo di sostenibilità che nell’Agenda 2030 punta a promuovere società pacifiche ed inclusive, fornire l’accesso universale alla giustizia e costruire istituzioni responsabili ed efficaci a tutti i livelli.
Le storie hanno portato alla luce come due siano le strade da percorrere per costruire la pace sempre e ovunque: dialogo e giustizia. Il dialogo è apparso come strumento privilegiato in quanto espressione dell’interazione tra idee, esperienze, scelte differenti alla ricerca di una verità condivisa. Paulo Freire e Danilo Dolci hanno dimostrato che il dialogo è la via maestra per lo sviluppo comunitario, premessa e metodo del processo di coscientizzazione e di partecipazione popolare. Il dialogo è stato raccontato anche come strumento della lotta politica e sociale nonviolenta, unica alternativa possibile alla violenza e a qualsiasi forma di coercizione, come sosteneva Aldo Capitini.
La giustizia, invece, si è manifestata come espressione di affermazione dei diritti delle persone, motore di società dove la realizzazione delle piene libertà dell’individuo e dell’uguaglianza di tutti i cittadini e cittadine è compito primario delle istituzioni e di tutti/e noi. Abbiamo imparato che lavorare affinché i diritti umani siano al centro delle nostre vite è strategico per promuovere una trasformazione positiva delle società.
Di ritorno da Marina di Cecina, dove tra il 5 e l’8 luglio si è svolta la XXVIII edizione del Meeting Internazionale Antirazzista organizzato da Arci Toscana e dove il progetto di digital storytellig e le storie di pace hanno trovato spazio per essere conosciute e discusse, un pensiero si è fatto strada: la pace deve camminare perché è movimento, energia, forza; non può essere relegata ad uno stato inerziale di quiete. Buon cammino!
Sara Bin

(1976) vive in provincia di Treviso e lavora a Padova. É dottore di ricerca in geografia umana; ricercatrice e formatrice presso Fondazione Fontana onlus dove si occupa di progetti di educazione alla cittadinanza globale e di cooperazione internazionale; è docente a contratto di geografia politica ed economica; ha insegnato geografia culturale, geografia sociale e didattica della geografia. Collabora con l’Università degli Studi di Padova nell'ambito di progetti di educazione al paesaggio e di formazione degli insegnanti. Ha coordinato lo sviluppo e l'implementazione dell'Atlante on-line in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, del'Università e della Ricerca. Dal 2014 fa parte del gruppo di redattori e redattrici di Unimondo. Ha svolto attività didattica e formativa in varie sedi universitarie, scolastiche ed educative ed attività di consulenza nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Tra i suoi principali ambiti di ricerca e di interesse vi sono le migrazioni, la cittadinanza globale, i progetti di sviluppo nell’Africa sub-sahariana, lo sviluppo locale e la sovranità alimentare. Ha svolto numerose missioni di ricerca e studio in Africa, in particolare in Burkina Faso, Senegal, Mali, Niger e Kenya. E' membro dell'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e presidente della sezione veneta.