Cosa accade alle banche. E cosa potrebbe accadere

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Agatha Christie in una celebre battuta sosteneva che «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Attualmente nel giallo dello stato di salute del sistema bancario globale e, di conseguenza, di quello economico-finanziario, siamo arrivati in pochi giorni già alla coincidenza. Il fallimento della Silicon Valley Bank (Svb) e il successivo crollo in borsa di Credit Suisse richiamano immediatamente il crack di Lehmann Brothers, cioè il fallimento bancario che accese la crisi finanziaria globale del 2008. A distanza di quindici anni, come di riflesso, il ricordo e le paure tornano a quella vicenda, quando le autorità statunitensi non intervennero, lasciando fallire l’istituto. L’automatismo è in parte giustificato, se si considerano le fragilità dell’attuale sistema finanziario e l’importanza del fattore fiducia, ma ad alcune analogie corrispondono anche differenze importanti che restituiscono un quadro complesso ed estremamente dinamico.

Sarà una nuova Lehman?

Molti analisti hanno messo in luce le differenze, rassicurando ed escludendo che il fallimento di Svp sia l’inizio di una nuova crisi sistemica. Questa visione indubbiamente poggia su alcuni elementi di verità.

Dopo la crisi del 2008 i meccanismi precauzionali sono aumentati. I vari accordi quadro raggiunti a Basilea svolgono una funzione di deterrenza richiedendo alle banche maggiore capitalizzazione e liquidità. L’Europa, nel tempo, si è dotata di sistemi di controllo più rigidi. Non a caso il presidente dell’Associazione delle Banche Italiane (Abi) si è precipitato a tranquillizzare l’opinione pubblica affermando che non vede «il rischio di contagio anche perché in Europa le regole sono più rigide», sottolineando come la Silicon Valley Bank, sebbene fosse sottoposta al regime di Basilea, rientrasse in una categoria di banche soggetta ai requisiti patrimoniali, ma non a quelli di liquidità. In Italia gli indici sulla liquidità sono piuttosto elevati, garantendo maggiormente dai rischi di fuga degli investitori e sulla durata delle fonti di finanziamento. Infine, la Svp è la sedicesima banca statunitense e non la quarta banca d’affari come la Lehman, con una dimensione chiaramente sistemica che Svp non ha. 

Fin qui le differenze rassicuranti. Passando alle analogie si potrebbe partire proprio dalle reazioni: in fondo anche nel 2008 le istituzioni finanziarie non immaginavano la valanga che il fallimento di Lehman avrebbe innescato e qualcuno si affrettò addirittura a brindare, interpretando il crack come un segnale di vitalità del mercato, uno stop deciso al moral hazard, capace di punire gli investimenti sbagliati e di premiare quelli corretti. Che quello di Silicon Valley Bank perlomeno non sia un caso isolato lo confermerebbe il fatto che in questi giorni c’è stato anche il crollo della sua filiale britannica (comprata per una sterlina dal colosso HSBC), il fallimento della Signature Bank (ventunesima banca a stelle e strisce), della Silvergate Bank (legata al mondo delle criptovalute) e il salvataggio in extremis della First Republic Bank (avvenuto proprio ieri grazie all’intervento dei principali istituti statunitensi). Primo indizio, dunque...

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