Solidali in tempo di crisi

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Oggi, ancor più di ieri, la cooperazione internazionale si costruisce qui, in Europa, nei paesi che, fino a pochi decenni fa, fornivano assistenza e aiuti ai “poveri” che abitavano oltremare. Nel post coloniale si andava a portare civiltà, consapevoli della nostra superiorità. I bianchi viaggiano in Jeep mentre i locali a piedi. Ne abbiamo fatta di strada “assieme”.

La forza trainante e globalizzatrice dell’occidente, liberata completamente con la fine del blocco sovietico e della contrapposizione ideologica, poteva sprigionarsi per andare ad un ulteriore conquista del mondo, in nome del mercato, dello sviluppo, della libertà, della democrazia; tutto pensato ovviamente secondo canoni prettamente occidentali.

Ansie per un’effettiva promozione dei diritti umani si mescolavano – e si mescolano – con un paternalismo compassionevole misto caritatismo da un lato ed evidenti interessi economici dall'altro. La solidarietà internazionale era una cornice ideale per un mondo, ad egemonia statunitense, proiettato verso un radioso sviluppo ove il Mercato aveva la meglio. Era l’utopia degli anni ’90, politicamente segnati dalla fine della guerra fredda ed economicamente dall’irresistibile ascesa delle borse e dalle varie bolle finanziarie. Poi arrivò l’11 settembre. Come risposta ci si focalizzò sul Medio Oriente (Iraq ed Afghanistan) perdendo di vista la prepotente crescita economica dei BRICS che ha rovesciato ogni logica nelle sedi istituzionali transnazionali. Ha senso che l'Italia faccia parte del G8 e l'India no?

Per fare cooperazione bisogna rendersi conto di questo quadro, completamente mutato rispetto ad alcuni anni fa. Questi fenomeni epocali affondano le loro radici nel dopoguerra. La novità di inizio millennio è questa: “non siamo più al centro del mondo”. (A dire il vero non l'eravamo nemmeno prima ma adesso fatichiamo anche nel darci una visione falsata delle cose tanti sono i negozi di cinesi e gli uffici indiani che circondano il nostro abitare). Centro e periferia esiste qui come a Rio de Janeiro o Nairobi città costellate di centri commerciali ed uffici finanziari pur se circondate da baraccopoli ove la povertà si fa più estrema.

La seconda novità è quest'altra: “il nostro benessere non è più scontato”. Con le badanti sottopagate dai paesi dell'est che sostengono il nostro welfare possiamo affermare che “è finito il tempo in cui la solidarietà internazionale era unidirezionale”, come fosse un flusso ininterrotto dagli eterni ricchi agli eterni poveri e non la possibilità di uno scambio paritario di relazioni, valori, esperienze, capitali.

Trattasi di una rivoluzione copernicana, un cambio di paradigma che fatichiamo ad accettare: “noi abbiamo bisogno di loro”. Possiamo aiutarli, certo, ma sono in primis ad aiutare popolazioni con tassi di crescita di nuovi nati, oltre che economici, pari a zero. Loro sono qui. Noi stiamo diventando poveri.

Di primo acchito siamo portati a rinchiuderci, isolarci, alzare barriere, cessare relazioni ma ci ritroveremo, con il tempo, ancor più poveri. Più soli. Come reagire? Con l'”esatto contrario”. Opponendoci con tutte le forze alla “tendenza naturale”. Cambiando, nel contempo, radicalmente approccio. Siamo noi a dover imparare ad atteggiarci in modo diametralmente opposto. Per dirla con Ugo Morelli la cooperazione internazionale, in tal senso, esige una posizione attenta prima di tutto ai propri limiti ed a una buona analisi delle ragioni che inducono a volersi occupare di altre popolazioni e di situazioni diverse dalla propria.

Se si ritiene di avere qualcosa da fare per aiutare gli altri ad aiutarsi, allora diviene importante tenere sempre presente che non c'è niente da esportare e nessuno da istruire: c'è molto da imparare dagli altri, soprattutto a proposito dei propri limiti e dei limiti da darsi nell'intervenire. Alla base della cooperazione si può in tal modo collocare una nuova coscienza: quella di specie, come la chiama Edgar Morin. Noi oggi potremmo aggiungere la necessità di una coscienza non solo intraspecifica ma interspecifica, a partire dalla posizione distruttiva che la presenza della nostra specie ha assunto sul pianeta di cui sopra. La cooperazione tra i popoli del pianeta e soprattutto quella tra popolazioni impoverite e quelle che si arrogano, ancora nell'immaginario, lo status di dominanti, non può oggi esimersi dal considerare la centralità dei limiti della forma di sviluppo che ci siamo dati. Né può bastare l'opzione della sostenibilità, che si configura sempre più come una "toppa" ideologica che lascia intatti, non affrontati né risolti, i problemi di fondo. Quei problemi riguardano soprattutto il riconoscimento del fatto che lo sviluppo oggi non è più uguale alla crescita ma alla scelta dei limiti che sapremo e vorremo darci. Così come uno sviluppo qualitativo della vita umana e delle altre specie sul pianeta non può essere in nessun modo disgiunto dalla redistribuzione delle risorse secondo un principio di maggiore equità. Tutto questo non potrà verosimilmente avvenire senza attraversare conflitti e inventare nuovi modelli di cooperazione.

Tutto cambia, quindi. Cambia l’approccio complessivo. Non si tratta più di essere benevoli, seguendo i nostri valori che ci suggeriscono di esaltare la dignità umana di ogni individuo, ma che possiamo salvarci soltanto insieme a loro.

La crisi economica però rende evidente un ulteriore livello: la solidarietà si attua dentro la nostra società, diventata multietnica ma scopertasi di colpo povera e fragile. Essere solidali significa immergersi in questo cambiamento non avendo paura di affrontare le crescenti difficoltà. Appare sterile infatti andare semplicemente a cercare cause e responsabilità della crisi, prendersela con gli istituti finanziari e con l’ideologia liberista, senza escogitare possibili vie di uscita.

La solidarietà oggi prevede reciprocità, innovazione, lavoro, capacità di sfidare la logica del mercato così pervasiva e dominante. Siamo immersi in questa logica, non ce ne possiamo sottrarre, anche se la vogliamo a tutti i costi cambiare. La solidarietà si regge sicuramente sul volontariato, sulla passione gratuita di persone dedite alla cura degli altri e del mondo, sulla generosità dell’impegno e delle offerte. Se questi sono i pilastri, nel contesto odierno occorre fare un salto di qualità.

La dimensione della solidarietà va liberata dalle catene che la relegano nella stretta ridotta della beneficenza, delle buone azioni, dell’entusiasmo – un po’ infantile – di poter aiutare gli altri. Tutto l’atteggiamento della persona di fronte alla realtà dev' essere solidale per poi portare questo stile nelle associazioni, dando nuova linfa per la crescita di uno spazio pubblico guidato da quegli stessi ideali di giustizia. Occorre accettare la sfida della complessità sociale, “stando sul mercato” per cambiare le regole del mercato come abbimao potuto sperimentare sia con il commercio equo che con la finanza solidale.

Qualche giorno fa il comico Maurizio Crozza imitava l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne mettendogli in bocca un frase molto vicina al suo modo effettivo di ragionare e a quello di molti potenti di oggi: “io sposto la sede dove vendo le macchine. Le vendo a Detroit, la sposto a Detroit. Le vendo a Bolzano, la sposto a Bolzano”. Le persone non esistono. La globalizzazione che non vogliamo è proprio questa: è devastante dal punto di vista umano, impraticabile a lungo andare anche da quello economico. La crisi dimostra proprio questo. Lo sviluppo passa attraverso l’alternativa di una solidarietà che sa innovare.

Essere solidali è un atteggiamento interiore che implica studio, ricerca, desiderio, fantasia. Per progettare un mondo nuovo in cui nessuno sia in partenza superiore agli altri, in cui l’ambiente è un protagonista vivo, in cui la politica riprende il suo posto. Ad ogni livello, dai quartieri alle Nazioni Unite. L'alternativa è la chiusura in noi stessi. Liberissimi di farlo. Liberissimi di aumentare a dismisura la povertà di relazioni. La scelta contraria per rispondere positivamente alla globalizzazione.

Redazione di Unimondo

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