Yemen, catastrofe umanitaria di cui anche noi siamo responsabili

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Un paese al collasso, distrutto dalle bombe sganciate a grappoli dai caccia sauditi, e oggi colpito dalla “peggiore epidemia di colera al mondo all’interno della più grande crisi umanitaria al mondo”. Così l’Onu insieme ad alcune tra le principali organizzazioni non governative – tra cui Unicef, Oxfam, Medici Senza Frontiere – descrivono lo Yemen, un luogo che sembra essere stato dimenticato (dai media, dall’opinione pubblica, della comunità internazionale), martoriato da una guerra che va avanti dal 2015 e che solo apparentemente non ci coinvolge. Arrivano da casa nostra, infatti, molte delle bombe che continuano a piovere sulla popolazione yemenita e a colpire indiscriminatamente ospedali, scuole, civili inermi: le produciamo qui e le vendiamo all’Arabia Saudita, per un volume d’affari di milioni di euro. Le conseguenze? Quasi 5 mila vittime, molte delle quali bambini, con oltre 3 milioni persone costrette ad abbandonare le proprie case, mentre il 70% della popolazione – circa 19 milioni di persone – hanno bisogno immediato di aiuti umanitari per sopravvivere, e tra loro 7 milioni lottano ogni giorno per avere un pasto decente.

Non solo: le bombe della coalizione saudita hanno distrutto e paralizzato servizi vitali per la salute, l’acqua e l’igiene, con effetti tragici per la popolazione: sono infatti 14 milioni le persone che non hanno accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici, e circa 2 milioni di bambini sono colpiti da malnutrizione acuta che li rende ancora più vulnerabili al colera. “Solo negli ultimi tre mesi sono stati registrati 400 mila casi sospetti di colera e circa 1.900 morti associati alla malattia” denunciano Unicef, Oms e WFP, a conclusione di una recente missione congiunta effettuata nel Paese. Secondo le organizzazioni, si tratta del numero più alto mai registrato al mondo in un solo anno e con la stagione delle piogge – in corso fino a settembre – i casi potrebbero salire fino a 600 mila, rischiando di aggravare ulteriormente la disastrosa emergenza umanitaria in atto in uno dei paesi più poveri del mondo, già sfinito da due anni di atroce conflitto e sull’orlo della carestia.

“Siamo di fronte ad uno dei peggiori picchi epidemici degli ultimi 50 anni – afferma anche Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia – E’ una situazione sconcertante: il colera è una malattia facile da trattare e semplice da prevenire. Ma per poter intervenire è necessario uno sforzo massiccio e coordinato da parte della comunità internazionale, interrompendo le restrizioni all’ingresso degli aiuti umanitari nel Paese. L’obiettivo primario adesso è garantire alla popolazione acqua pulita, e condizioni igieniche dignitose, indispensabili per prevenire un ulteriore allargamento del contagio”. Se oltre 30 mila operatori sanitari non ricevono lo stipendio da più di 10 mesi, molti lavorano ancora per dovere, in un contesto però dove più di metà delle strutture sanitarie sono ormai distrutte. “Chiediamo adesso alla comunità internazionale di moltiplicare il suo supporto per le persone dello Yemen – spiegano le ong – Se non faremo nulla adesso, la catastrofe che abbiamo visto espandersi davanti ai nostri occhi non solo continuerà a mietere vite, ma comprometterà il futuro delle prossime generazioni e del paese per gli anni a venire”.

Questo mentre i principali paesi esportatori di armi continuano a investire sempre più denaro per la vendita ai paesi della coalizione a guida saudita coinvolta nel conflitto (di cui fanno parte Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Kuwait, Marocco, Qatar, Sudan). A contribuire infatti alla fornitura di materiale bellico sono Stati Uniti, Turchia, Francia, Regno Unito, Canada, mentre in occasione del VII anniversario dell’entrata in vigore della Convenzione sulle Munizioni Cluster (CCM), la Campagna Italiana contro le mine onlus ha denunciato l’utilizzo da parte della coalizione saudita di bombe a grappolo di produzione brasiliana “in pieno e costante disprezzo delle vite umane e del diritto umanitario”. E poi c’è l’Italia, in particolare la Sardegna, dove nel piccolo comune di Domusnovas, in provincia di Carbonia-Iglesias, opera la fabbrica d’armi RWM (di proprietà tedesca e sede legale a Ghedi, Brescia): qui sarebbero state prodotte 20 mila bombe solo nel 2016, di cui gran parte destinate all’Arabia Saudita, in piena violazione della legge 185/1990 che vieta le esportazioni di tutti i materiali militari e loro componenti verso Paesi in stato di conflitto armato. Una situazione denunciata da tempo da tempo ong, cittadini e associazioni pacifiste, mentre le istituzioni e il governo finora sono rimasti sordi agli appelli, nel nome di “più alti” interessi commerciali.

A livello locale, però, qualcosa si muove, e questo nonostante l’opposizione di industriali e sindacati che, in un inedito appello congiunto, hanno scongiurato la chiusura della fabbrica di Domusnovas per tutelare i posti di lavoro e l’indotto (ciò che comitati e associazioni pacifiste definiscono come il classico “ricatto occupazionale”). A maggio di quest’anno è sorto infatti il Comitato "Riconversione Rwm" che punta proprio a promuovere la riconversione a produzioni civili dello stabilimento tedesco, mentre il 19 luglio il consiglio comunale di Iglesias ha approvato un ordine del giorno proposto dal sindaco Emilio Gariazzo, che esprime “ferma contrarietà alla esportazione di armamenti verso paesi in stato di conflitto armato, dichiara che l’unica strategia ammissibile è quella volta a dirimere pacificamente i conflitti, dà assoluta priorità alle politiche di disarmo e di pace, dichiara la volontà della città di porsi come centro di promozione della pace, sollecita lo Stato a verificare il rispetto dei trattati internazionali e delle norme italiane, chiede a Stato e Regione di adoperarsi per creare le precondizioni necessarie alla riconversione della fabbrica con la garanzia dell’attuale livello di occupazione e l’auspicabile ulteriore incremento”.  

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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