Obama, Africa my Africa…

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24-28 luglio 2015. Forse ci dimenticheremo di queste date, ma la visita di Barak Obama in Kenya ed Etiopia diventerà sicuramente storica, almeno per la storia del continente, quella che i nostri libri ancora faticano a farci conoscere. Arrivato in Africa il 24 luglio a bordo del suo Air Force One per un soggiorno dai tanti primati: primo viaggio da presidente nella terra del padre, il Kenya; primo presidente statunitense in Etiopia e primo presidente statunitense a visitare l’Unione Africana (UA) che ha sede in Addis Abeba da dove è ripartito.

Prima tappa, quindi, il Kenya, anzi Nairobi – la capitale, oltre tre milioni di abitanti (l’ultimo censimento risale al 2009). Parla al Paese in più occasioni, in particolare ai giovani: proietta le speranze in avanti. “Because of Kenya's progress, because of your potential, you can build your future right here, right now”. Risuona all’orecchio il motto “yes we can”, ma quello era stato pensato per gli Stati Uniti d’America. Il Kenya è un’altra faccenda, si trova ad un bivio: la strada dei rischi e quella delle promesse possono confondersi. I dissapori “tribali ed etnici” – i termini sono utilizzati dallo stesso Obama in uno dei suoi discorsi – non possono far crescere un paese, essi sono la causa del “fallimento dell’immaginazione”; insieme a pratiche troppo antiche per essere ancora oggi legittimate come i matrimoni precoci, la subalternità delle donne, l’ostilità verso persone di differenti sensibilità sessuali. Le preoccupazione per l’instabilità dell’area legata alle questioni con la Somalia, in particolare lungo il confine nord orientale e alle minacce del gruppo Al Shabaab, nelle parole del presidente sembrano contenute, anche se non totalmente risolte. Gli Stati Uniti si dichiarano pronti a rafforzare la collaborazione in nome della lotta contro il “terrorismo internazionale” sia sul fronte finanziario che dell’addestramento militare.

Oltre ai discorsi alle folle, ai proclami ideologici e ai toni profetici, Obama ha inaugurato il Global Entrepreneurs Summit 2015, un’iniziativa del dipartimento di stato americano avviata al fine di accrescere i legami commerciali tra leader, fondazioni, imprenditori degli Stati Uniti e le comunità musulmane del mondo e lanciata a Cairo nel 2010. Evento diventato annuale: Istanbul, Dubai, Kuala Lumpur, Marrakech e quest’anno Nairobi. La scelta è interessante perché, a differenza delle altre destinazioni, il Kenya è anomalo come paese musulmano considerato che la percentuale di fedeli al Corano è di poco più del 10%. I margini d’investimento sono però ampi in una molteplicità di settori dall’agricoltura al turismo, dai servizi all’industria. La pagina Facebook dell’evento è interessante: una bacheca delle cose che il Kenya mette in vendita. “Imprenditori, scegliete il Kenya!”. Per dare un volto “più umano” alle pratiche del business estremo, Obama ha promesso che in un futuro molto prossimo saranno ben 1600 le donne imprenditrici che beneficeranno di nuovi fondi d’investimento. Dal suo discorso inaugurale si evince che “Women are powerhouse entrepreneurs. The research shows that when women entrepreneurs succeed, they drive economic growth and invest more back into their families and communities”

Seconda tappa l’Etiopia, anzi Addis Abeba e l’Unione Africana. Meta discussa viste le continue violazioni del governo di Mulatu Teshome nei confronti dei diritti umani nei confronti di dissidenti politici e giornalisti.

Qualcuno conosce l’Unione Africana? Un tempo si chiamava Organizzazione dell’Unione Africana, era stata fondata nel 1963 con lo scopo di assicurare all’Africa un futuro politico ed economico a lungo termine. Oggi solo il Marocco non ne fa parte; i paesi membri sono cinquantaquattro. L’idea che l’unione faccia la forza guida il senso comune e talvolta anche il buon senso; nonostante ciò la percezione che si ha dell’Unione Africana, come delle altre organizzazioni internazionali, è di inutilità e di parassitismo, come scrive Miriam Rossi nel suo ultimo articolo su chi governa il mondo. Inutile o meno, il discorso che Barak Obama ha tenuto il 28 luglio di fronte ai paesi membri dell’UA è sicuramente da ricordare.

I suoi discorsi hanno il sapore del bastone e della carota. Tranchant nei confronti delle tante mancanze (in ambito sanitario, sociale, ecc.), delle violazioni dei diritti, della scarsa considerazione delle differenze di genere, di sensibilità sessuale e di religione, della corruzione (definita un “cancro”), delle dittature di chi, nonostante il denaro a disposizione, non riesce a farsi da parte – è insindacabile la sua sentenza “Nobody should be president for life” (portando l’esempio del Burundi).

Incoraggiante sul piano dei passi in avanti, i progressi, disposto a sostenerli. La critica alla Cina ha il sapore dell’amara constatazione di chi non è tra i primi della classe. Il colosso d’oriente ha il primato commerciale nel continente, gli Stati Uniti non ci sono o meglio ci sono modestamente. Le relazioni economiche non possono consistere in una corsa alle infrastrutture fatte con manodopera straniera o al furto delle risorse naturali, procedure molto care alla Cina – secondo Obama, bensì creando possibilità e costruendo competenze per gli africani. Quest’ultima invece si vorrebbe fosse la missione futura degli Stati Uniti nel continente che, è evidente, vuole esserci se non altro perché l’Africa, essendo un continente che cresce a grande velocità – alcuni paesi stanno vivendo una crescita economica vertiginosa, rappresenta un buon terreno sul quale esercitare le antiche pratiche dello sviluppo. Gli USA vogliono aiutare il continente a sviluppare le sue potenzialità. Chissà come vorranno farlo. Anche il president Harry Truman, nel 1949, parlando alla nazione disse: “we must embark on a bold new program for making the benefits of our scientific advances and industrial progress available for the improvement and growth of underdeveloped areas. […]For the first time in history, humanity possesses the knowledge and skill to relieve the suffering of these people”. Ciò che è accaduto dopo quel discorso è noto.

Staremo a vedere chi ascolterà chi e soprattutto cosa accadrà nella storia di questo sviluppo che, come scrisse nel lontano 1997 Gilbert Rist, ha sempre di più i connotati di una credenza tutta occidentale. 

Sara Bin

(1976) vive in provincia di Treviso e lavora a Padova. É dottore di ricerca in geografia umana; ricercatrice e formatrice presso Fondazione Fontana onlus dove si occupa di progetti di educazione alla cittadinanza globale e di cooperazione internazionale; è docente a contratto di geografia politica ed economica; ha insegnato geografia culturale, geografia sociale e didattica della geografia. Collabora con l’Università degli Studi di Padova nell'ambito di progetti di educazione al paesaggio e di formazione degli insegnanti. Ha coordinato lo sviluppo e l'implementazione dell'Atlante on-line in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, del'Università e della Ricerca. Dal 2014 fa parte del gruppo di redattori e redattrici di Unimondo. Ha svolto attività didattica e formativa in varie sedi universitarie, scolastiche ed educative ed attività di consulenza nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Tra i suoi principali ambiti di ricerca e di interesse vi sono le migrazioni, la cittadinanza globale, i progetti di sviluppo nell’Africa sub-sahariana, lo sviluppo locale e la sovranità alimentare. Ha svolto numerose missioni di ricerca e studio in Africa, in particolare in Burkina Faso, Senegal, Mali, Niger e Kenya. E' membro dell'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e presidente della sezione veneta

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