Con l’Agenda 2063 si sogna il rinascimento africano

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I am African. I am the African Union” (ossia “Io sono africano. Io sono l’Unione Africana”) è la campagna lanciata nel 2012 dall’Organizzazione regionale, che riunisce tutti gli Stati del continente africano ad eccezione del Marocco, per veicolare l’immagine di un territorio unito “per un’Africa pacifica, prospera e unita”. Il bambino scelto come volto per il post appare il primo ad essere perplesso dinanzi a questo slogan. Braccia incrociate, camicetta a quadri allacciata fino all’ultimo bottone sul collo, sorriso con un’ampia finestrella e occhi che domandano all’obiettivo la coerenza del proprio sguardo con il panafricanismo espresso dalla campagna. Il tentativo di promuovere il senso di appartenenza di ciascun cittadino africano all’Organizzazione e al contempo la responsabilità individuale nella gestione della stessa non è azione di poco conto. Tuttavia, proprio in un continente che ha trovato un elemento di identità collettiva nella strenua lotta per il diritto di autodeterminazione dei popoli, l’individuazione di altri comuni intenti verso i quali i governi possano indirizzare i propri sforzi politici non potrebbe che potenziare infinitamente l’efficacia delle singole strategie messe in campo. L’atavico principio che “l’unione fa la forza” era stato posto proprio alla base dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), da cui ha avuto origine l’attuale Unione Africana. Nel maggio del 1963 il ghanese Kwame Nkrumah, uno dei padri del panafricanismo, prendendo la parola alla Conferenza inaugurale ad Addis Abeba aveva affermato: “In quale altro modo le zone più ricche e ancora ridotte in schiavitù del nostro continente potranno essere liberate dall’occupazione coloniale e diventare disponibili per lo sviluppo del nostro continente se non con i nostri sforzi congiunti?” L’eco delle sue parole resta valida ancora oggi, nella piena maturità dell’esperienza di accordo intergovernativo dei Paesi africani.

A distanza di più di 50 anni dalla fondazione del primo nucleo dell’Organizzazione, molti restano i problemi insoluti di questi anni di attività. L’inefficacia delle decisioni adottate innanzitutto, ma anche la scarsa coesione di intenti, la corruttibilità dei capi di governo di numerosi Stati e gli scarsi fondi destinati agli obiettivi condivisi in un continente straordinariamente vasto e costituito da realtà assai complesse. Il 15 giugno scorso si è chiusa a Johannesburg, in Sudafrica, la 25° sessione ordinaria dell’Assemblea dei capi di Stato e di governo dell’Unione Africana (UA). Gli applausi sono andati anche a Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe e attuale presidente di turno dell’UA, nonostante resti sulla lista nera dell’UE, ragione per la quale gli è negato il visto e gli sono stati congelati i beni, a causa della violenta repressione attuata nel suo Paese nel 2002. Ancor più forti sono stati gli applausi che hanno accolto in Assemblea il presidente del Sudan Omar al-Bashir, sul cui capo pendono due mandati di arresto da parte della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità per il genocidio commesso durante il conflitto del Darfur. Elusi sono stati gli inviti del Tribunale al governo sudafricano, anch’egli sottoscrittore degli impegni sanciti dallo Statuto di Roma del 1998, nonché dal Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon e da numerose organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani, a mettere in stato di arresto al-Bashir; una possibilità concreta che, fino a quest’ultimo episodio, aveva indotto il presidente sudanese a desistere dal prendere parte a riunioni in territorio sudafricano. Un elemento che non fa ben sperare per l’auspicato rafforzamento del sistema africano di promozione e protezione dei diritti umani basato sulla Carta Africana dei diritti dell'uomo e dei popoli del 1981, poi integrata da una Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli entrata in vigore nel 2004 proprio per impedire che le violazioni delle disposizioni della Carta generassero solamente una generale impunità.

D’altra parte anche in Europa c’è poco da star sereni sulla limitazione dello spazio dato ai leader politici responsabili di crimini e di violazioni dei diritti umani. Appena domenica scorsa lo scenario mondiale di Expo a Milano è stato offerto a Irina Inantore, la ministra burundese per il Commercio, l’Industria, le Poste e il Turismo, espressione del regime del presidente Pierre Nkurunziza candidato a un illegittimo terzo mandato che, dalla fine di aprile, è intervenuto con forza contro le proteste della popolazione facendo registrare oltre 70 vittime, 1.000 cittadini arrestati e mettendo in fuga all’incirca 140mila persone.

Non sono però tutti negativi i segnali che provengono dall’Unione Africana. L’azione dell’Organizzazione per la promozione della cosiddetta Agenda 2063 si fa infatti sempre più concreta con la predisposizione di un primo piano decennale di azioni. Ideata nel cinquantesimo anniversario di fondazione dell’Organizzazione dell’Unione Africana nel 2013, l’ambizioso progetto, analogamente a quanto previsto con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, intende puntare a un cambiamento decisivo del continente puntando sulle sue potenzialità inespresse. I segni di un possibile “rinascimento africano” passano dallo sviluppo della “information technology” che consente di accorciare le distanze e di integrarsi con maggiore facilità nel mercato globale, anche finanziario. La maggiore sinergia tra le economie africane, le opportunità di investimento e la crescita di una classe media giovane e formata induce a pensare che lo sviluppo di una strategia di crescita comune e a lungo termine sia effettiva. Il sogno dell’Agenda 2063 prevede, per quella data, l’attuazione di 7 aspirazioni che vedono un’Africa prospera basata sulla crescita inclusiva e sullo sviluppo sostenibile; un continente integrato, democratico, rispettoso dei diritti umani e pacificato; un territorio con una forte identità culturale e un attore globale forte. Si sogna la rinascita africana, si cerca di disegnare un futuro differente per milioni di persone.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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