Xenofobia e Comunità

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Le violente reazioni xenofobe verificatesi recentemente a Treviso come a Roma, opera di gruppi minoritari di cittadini, ma fomentati da squadristi di estrema destra alla ricerca dell’ennesimo capro espiatorio, sono fatti di fronte ai quali non si deve girare il capo, con atteggiamenti di sottovalutazione o, peggio, di malcelata comprensione e giustificazione. Le affermazioni di quei cittadini che urlavano “andatevene, non vogliamo vedervi né convivere con voi” sono la più evidente manifestazione di un grave disturbo dell’identità comunitaria, che va sotto il nome di purismo.

L’idea ossessiva che ne è alla base è che ci sia una comunità data, autoctona, che si identifica nella sua assoluta differenza dall’altro, la cui presenza e vicinanza rappresenta il rischio di un’infezione, di una contaminazione, di un’alterazione di sé, di una perdita della propria purezza culturale. L’altro, lo straniero, è colui che mette a repentaglio la “nostra” presunta purezza, è colui che porta dall’esterno il germe del mutamento possibile, del dis-ordine e della nostra temuta relativizzazione. Per l’ideologia purista, consapevole o meno, la relazione con l’altro è sempre fonte di pericolo, di equivocità, di complicazione, di una complessità che non si riesce a concepire e a gestire, e rispetto a cui ci difendiamo, in casi estremi, con la violenza nuda e cruda, quella che mira a scacciare l’altro, a distruggere i segni stessi della presenza dell’altro intorno a noi, accanto a noi. Tale e tanta è il terrore che l’altro ci incute, l’ossessione paranoica da cui siamo abitati!

La presenza reale, concreta, fisica dello Straniero che bussa alle nostre porte, che chiede accoglienza e asilo, che abita vicino a noi e che ci interpella con l’esposizione disperata del suo volto e del suo disagio, è la sfida che ogni comunità non può più eludere. Non è più possibile optare per la rassicurante chiusura nel proprio uni-verso comunitario, per sottrarsi alla responsabilità davanti allo Straniero e al suo appello, per schivare la domanda scomoda che egli ci rivolge: “Ma quale civiltà, quale democrazia, quale comunità state costruendo, chiusi nelle vostre comode esistenze, insensibili all’umanità del nuovo arrivante?”.

Quello che è in gioco in questo incontro scomodo ma ineludibile, è il senso profondo dell’essere comunità, comunità responsabili di fronte allo spettacolo difficile del mondo contemporaneo, di fronte alla complessità non rimuovibile dei suoi problemi e delle sue contraddizioni. È in gioco il significato del confine della comunità resto del mondo, come se il mondo potesse scomparire abbassando le persiane, come se un mero atto di chiusura violenta fosse sufficiente per non ascoltare il grido assordante dell’altro, di colui che sta fuori le mura (ovvero rinchiuso nelle mura di inospitali luoghi sottratti al nostro sguardo).

L’illusione in cui ci si rifugia è che la comunità con i suoi supposti confini e i suoi sbarramenti immunizzanti possa continuare ad essere un luogo anestetizzato, protetto e sicuro, dove condurre una vita collettiva esonerata dai drammi del mondo, dove perseguire un modello di benessere esclusivo, garantito solo agli autoctoni, a coloro che condividono la medesima origine, suolo, cultura, idioma. De-finire la comunità esentandola dal suo essere parte del mondo, rinchiudendola nel suo mito autoreferenziale e solipsistico, come se il mondo-fuori non esistesse, come se la comunità stessa fosse il mondo, l’uni-verso: ecco la tentazione che sta al fondo di ogni mito comunitario, di ogni costruzione operosa della comunità, di ogni illusione “immunitaria”, di ogni ideologia purista.

Bisognerebbe riflettere a lungo sul pesante e tragico retaggio di questi miti e sulla loro persistenza in un mondo globalizzato, per rendersi conto che l’idea che ci si possa immunizzare dal mondo e dal suo scompiglio è l’inizio della fine di ogni comunità, è il nucleo di morte che fa di ogni mito comunitario un progetto di auto-soppressione, un po’ come coloro che vivono tutta una vita protetti ed isolati e, al primo contatto con l’esterno, si ammalano e muoiono. L’idea “biologica” della purezza e dell’immunizzazione della comunità non è mai stata uno strumento intelligente di governo politico del territorio, e coloro che ancora oggi la perseguono irresponsabilmente e lucidamente, illudendosi di far fronte con la chiusura all’evento del nuovo arrivante, arrecano alla comunità il peggiore dei mali, negando ad essa la possibilità di evolvere e di mutare, di articolare nuove forme di relazione con l’altro da sé, nuove possibilità di apertura, nuove esperienze di ospitalità e di essere-in-comune.

L’ospitalità non è il pericolo da evitare, ma il pharmacon che salva le comunità dall’ossessione identitaria e dalla chiusura purista su di sé, dall’indifferenza e dall’arroganza, dalla cecità, dall’egoismo sociale e dalla violenza. Il pharmacon è veleno e rimedio, l’uno e l’altro, in una combinazione in cui i contrari agiscono omeopaticamente insieme: come se il veleno fosse anche ciò che cura, che evita il collasso della comunità ad opera di se stessa. La cura dalla malattia del purismo comunitario consiste nell’inoculazione nel corpo sociale di nuove forme di reazione e di relazione, poiché l’identità chiusa, che si nutre solo di se stessa, è la vera malattia mortale, ciò che ogni comunità deve evitare per continuare a vivere nonostante e attraverso la sua apertura, grazie ad essa, lasciando aperto l’accesso al nuovo arrivante, rinunciando al mito della sua purezza culturale.

“Vieni, prendi posto nella mia comunità, salvami dalla mia chiusa e gretta felicità”: sono queste le parole che dovremmo rivolgere allo Straniero, che le nostre comunità dovrebbero avere il coraggio di pronunciare, oggi, di fronte all’emergenza senza fine dei nuovi arrivanti; non per filantropico umanitarismo, non per spirito benevolo, ma per sopravvivere a se stesse e alla loro claustrofobica identità, per interpretare nella maniera più radicale il senso di democrazia, di responsabilità, di giustizia. Poiché – come dice Emmanuel Lévinas – nella relazione con l’altro da sé consiste la giustizia.

Salvatore Piromallifilosofo

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