Piccoli passi di pace

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Faccio con loro l’ultimo pezzo di strada della marcia Perugia-Assisi, quello che sale dalla basilica di san Francesco fino alla Rocca. Sono i ragazzi di due scuole medie della periferia di Milano (le Gandhi e le Rodari) e cerco di capire che cosa li abbia spinti a partecipare a questo evento, assieme alla preside e a molti insegnanti.

Per moltissimi di loro è la prima volta che vengono nella piccola patria di Francesco e di Chiara, probabilmente per tutti è la prima marcia Perugia-Assisi. Per un tratto di strada vengono coinvolti da un gruppo di giovani e contribuiscono a portare una grande bandiera palestinese: un’occasione per parlare del significato di quella bandiera nella marcia, per sentire cosa conoscano del conflitto israelo-palestinese, per raccontare loro qualcosa sulle radici e i drammi di un conflitto che appare incomponibile.

“Mi è piaciuto molto, dice Greta, seconda media, il fatto che anche noi abbiamo portato la bandiera palestinese per un pezzo di strada assieme a tanti altri ragazzi. E mi ha fatto pensare al perché oggi qui nella marcia qualcuno ha deciso di portare quella bandiera”. E Martino aggiunge: “Per me portare quella bandiera è stata la cosa più importante della marcia. Sai perché? Perché c’è la guerra in tanti paesi del mondo e secondo me hanno portato quella bandiera per far ricordare, per non fare dimenticare che c’è la guerra”.

Alla Rocca ci raccogliamo stretti sotto un grande ombrello con i colori della pace, che ci ripara a stento da una pioggia leggera. Ma che cos’è, chiedo, la cosa che vi ha colpito di più di questa marcia? “La chiesa di San Francesco”, mi risponde di botto Martino. Io gli dico sulle prime che intendevo un’altra cosa, di raccontarmi proprio qualcosa della marcia; poi, scendendo, penso che forse aveva ragione Martino, che la terra nella quale Aldo Capitini quarantanove anni fa fece la sua prima Perugia Assisi è proprio la terra di S. Francesco, la terra del suo sogno e della sua utopia, quella terra nella quale maturò l’idea che fosse possibile andare a parlare perfino con il Saladino, il più temibile dei nemici, il più lontano dalla propria fede.

Ma come mai, chiedo, siete arrivati qui? Avete fatto un lavoro prima, a scuola, vi siete preparati a lungo? “Sì, abbiamo fatto molto lavoro, ci siamo chiesti che significato ha la parola pace per noi”, dice Matteo, ragazzino cinese nonostante il nome tutto italiano. Ma conoscevate già l’esistenza della marcia o lo avete saputo a scuola? “No, spiega Kevin, prima non sapevamo che c’era. Lo abbiamo imparato in classe, ce lo hanno raccontato i nostri insegnanti. E ci siamo stupiti molto, quando siamo arrivati, che ci siano così tante persone che marciano per la pace”.

E la parola pace cosa vi fa venire in mente? “Libertà, speranza, ma anche alcuni personaggi come Martin Luther King, o Nelson Mandela, mi dice decisa Ilaria. Abbiamo parlato tanto di questi testimoni di pace in classe. Abbiamo visto dei film per capire il loro lavoro e le loro scelte”. E per te, Greta, cosa significa la parola pace? “Secondo me pace vuol dire anche unione e uguaglianza, fratellanza e amore. Ma vuol dire allo stesso tempo accettare di essere diversi come persone, accettare le nostre differenze”.

Intanto sotto di noi un gruppo di scout sale verso la Rocca con una lunghissima bandiera della pace.

Cosa vi hanno fatto pensare tutte queste bandiere? “Sono tutte molto significative, continua Greta, perché tutte le bandiere e tutti i cartelloni che ci sono qui oggi portano un messaggio. Nella mia classe, ad esempio, abbiamo deciso che la frase da portare ad Assisi era questa: Se credi in te stesso la pace parte da te”. “Noi invece, spiega Achraf, pelle olivastra e grandi occhi neri, abbiamo scelto La pace ci porta lontano, la guerra non ci fa fare un passo”. “E noi, – aggiunge Kevin – abbiamo fatto un cartellone con la frase: Sulla nonviolenza tanti pensieri per creare un mondo più bello di ieri”.

Ma scusa, Kevin, come mai avete scelto la parola nonviolenza per il vostro cartellone? “Dovevamo scegliere sette parole per descrivere cosa voleva dire pace e alla fine ci sembrava che la parola nonviolenza fosse la migliore”. “Sì perché, aggiunge Mario, c’è troppa violenza, è per quello che non c’è pace”. E Greta: “A me piace anche la parola giustizia, perché contiene il rispetto dei diritti di tutti e i doveri che abbiamo verso gli altri”. “E poi – aggiunge Ilaria – la giustizia è anche pensare che anche se abbiamo religioni diverse e veniamo da Paesi diversi, dobbiamo sempre cercare il modo di vivere assieme rispettando le convinzioni di tutti”. “Per questo – conclude Greta – la pace è anche speranza”.

Ed è per questo che ha senso marciare per la pace? “Sì, dice ancora Greta, perché siamo in tanti e così facciamo vedere che in tanti crediamo che si deve costruire la pace e un mondo più giusto”. Ma, secondo voi, in una marcia per la pace c’è anche una dimensione di protesta? “Secondo me sì, dice Ilaria, c’è una protesta contro la guerra. Ma non deve essere una protesta violenta, altrimenti si nega la pace”. “Deve essere una protesta, mi spiega Claudio, che si fa con il dialogo e la discussione. Nelle guerre non c’è posto per il dialogo, perché si passa subito alla violenza e alle armi. Ma io penso che in questo modo non è possibile costruire davvero la pace”.

E se io vi chiedessi dove ci sono le maggiori guerre oggi, che cosa mi rispondereste? “Congo, Iraq, Afganistan, Tibet, Tailandia, Cecenia…” “Sì, il problema è, rilancia Ilaria, che noi di guerre ne conosciamo poche, ma nel mondo sono molte di più…” E perché non si conoscono questi teatri di guerra? “Perché i mass media non vogliono che si sappia”, riflette Domenico… “Io penso, dice Greta, che non se ne parla perché è uno scandalo che ci siano così tante guerre e perché noi stiamo bene e non vogliamo vedere, vogliamo dimenticare perché le guerre ci fanno paura”.

E cosa pensate del fatto che nonostante tutto si continua ad affidarsi alle armi? “Non è giusto, risponde Domenico, anche perché costruire le armi costa tantissimo”. “E poi, suggerisce Greta, c’è anche una questione di disprezzo della vita: chi costruisce le armi disprezza la vita umana e non accetta la diversità degli altri. È da lì che cominciano le guerre!”.

Guardo dall’alto la marcia che si snoda verso Assisi, mentre ripenso a questi ragazzi. Si possono ricavare, dalle loro parole, almeno due insegnamenti importanti.

Il primo sull’insostituibilità della scuola nella formazione di una cultura della pace. Le osservazioni di questi ragazzi sono lì a dire che non c’è nulla di retorico in questa affermazione. La scuola è realmente l’unica realtà educativa che raggiunge tutti i ragazzi ed è quindi l’unica realtà nella quale una riflessione sul tema della pace può suggerire spunti di riflessione e soprattutto occasione di confronto a tutti. Questa funzione sociale della scuola, come luogo in cui tutti si possono incontrare e confrontare sui grandi temi della convivenza umana è insostituibile. Semmai il problema sta nella scarsissima considerazione di cui gode la scuola nel nostro Paese. Eppure, parlando con questi ragazzi, viene da chiedersi se un Paese che disprezza la classe insegnante e non investe sulla scuola non sia strutturalmente suicida, oltre che inguaribilmente miope…

La seconda considerazione riguarda il concetto di pace e di conflitto. Il passaggio fondamentale è quello fra l’elaborazione dei principi di fondo che sostengono una cultura di pace e l’elaborazione di una “prassi di pace” nella quale abbia posto evidentemente anche l’elaborazione del conflitto. Questo è il passaggio più importante e delicato non solo sul piano pedagogico, ma soprattutto su quello politico, perché pone il problema dell’efficacia delle tentazioni massimaliste del pacifismo radicale. Non si tratta di negare i valori di fondo della cultura della pace e della nonviolenza, evidentemente, ma di chiedersi come tali valori possano essere declinati e come debbano essere testimoniati abitando i conflitti, come insegnano i grandi maestri della nonviolenza. La sfida tanto pedagogica quanto politica è, a questo livello, completamente aperta. Basterebbe solo prenderla seriamente in considerazione.

Alberto Conci

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