Mali, la guerra al terrorismo di cui non sappiamo nulla

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È una frontiera della guerra al terrorismo, con basi militari, hangar, elicotteri da guerra e un dispiegamento che costa solo alla Francia un milione di euro al giorno. Non è spettacolare come l’attacco alle torri gemelle, non è ripresa dai media di tutto il mondo. Avviene silenziosa in mezzo al Sahel in una regione semi-desertica, che negli anni scorsi gruppi criminali e terroristici hanno trasformato in uno snodo importante per il traffico di droga, esseri umani e armi.

Della guerra nel Nord del Mali, che dura da due anni e mezzo, si è parlato poco e male, in Italia. Un conflitto lontano? Un Paese che non c’entra nulla con noi? Non proprio. La cocaina, per esempio. Parte dalla Colombia, passa dal Mali prima di essere imbarcata da qualche parte nel Golfo di Guinea per poi essere venduta in Italia e in Europa.

E poi, i rapimenti. Come non ricordare Rossella Urru, la cooperante italiana del Cisp sparita nel luglio del 2011 in Algeria? Finì nel nord del Mali e, nell’ottobre del 2012, venne rilasciata nei pressi di Gao, ovvero nell’Azawad, proprio quel territorio che gruppi armati islamici e indipendentisti tuareg avevano dichiarato indipendente nell’aprile del 2012 scatenando la guerra. “Un deposito di ostaggi”: secondo Serge Daniel, una delle voci più autorevoli del giornalismo dell’Africa subsahariana, il nord del Mali è diventato anche questo.

Succede in Africa, è vero. Ma dopo i primi mesi di guerra i più autorevoli analisti concordavano nel dire che i terroristi erano dotati di vasti mezzi, e che la possibilità che trasferissero il conflitto in Europa esisteva. Non per nulla nel gennaio del 2013, su mandato dell’ONU, nel nord del Mali sono intervenute le forze internazionali dell’operazione Serval, con l’obiettivo è di ristabilire la sovranità del governo di Bamako sui territori settentrionali e arginare la ribellione.

Un anno dopo a che punto è questa guerra che vede da un lato soprattutto l’esercito francese affiancato al governo maliano e dall’altro un ventaglio di gruppi che va dal radicalismo islamico all’indipendentismo tuareg?

“Il conflitto non è finito, siamo ancora un Paese in guerra” dice Marco Alban, cooperante dell’ong italiana Lvia da Bamako, la capitale del Paese. “L’esercito francese ha aiutato il governo maliano a riprendere il controllo dalla maggior parte della regione settentrionale, militarizzandola”. “Ma ci sono eccezioni inquietanti” prosegue il cooperante italiano, “come la citta di Kidal, dove scorrazzano pick-up armati con le bandiere dei diversi gruppi terroristici e dove i militari francesi stanno ben asserragliati nelle proprie basi”. Kidal, la città dalla quale proveniva parte della famiglia di Gheddafi. Perché è ovvio che la destabilizzazione del Mali segue quella della Libia: la milizia speciale formata da tuareg del leader libico si è dispersa nell’area in cerca di nuovi ingaggi.

Lvia, l’ong per cui lavora Alban, sta portando la classica goccia nel deserto. “Stiamo riabilitando i pozzi andati distrutti durante la guerra”, racconta il cooperante. “Abbiamo ripreso a operare nel giugno del 2013, quando la situazione cominciava a essere sotto controllo. La metà delle strutture idriche era andata distrutta, e in quest’area desertica è scontato dire che un pozzo d’acqua è fondamentale per la sopravvivenza”.

Mangiare, bere, curarsi. Queste le priorità al nord. Ma soprattutto ricucire il tessuto sociale. Nel nord ma anche fra nord e sud, fra il mondo tuareg e quello delle popolazioni nere, da sempre eterogenei, messi insieme a forza dai confini tracciati in epoca coloniale.

“I tuareg sono stati incolpati di questa guerra, ma la situazione è ben più complessa” afferma Emanuela Zuccalà, autrice del video documentario “Io amo il Mali”, che ha raccontato la vita dei rifugiati maliani in Mauritania insieme all’ong Intersos. “Il mondo tuareg è composto da numerose tribù e famiglie ed è stato ulteriormente spaccato dall’infiltrarsi di gruppi terroristici che ne hanno cavalcato le rivendicazioni, e una spinta per l’indipendenza che c’è sempre stata”.

L’Azaward è stato dichiarato indipendente dal Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA), a prevalenza di etnia tuareg, che però ha quasi subito perso terreno a vantaggio dei gruppi islamisti MUJAO (Movimento per l’Unità e la Jihad nell’Africa Occidentale) e AQMI (Al Qaeda nel Magreb Islamico).

“Alcuni leader tuareg hanno spalleggiato i terroristi però molti altri, raggruppati per tribù, hanno fatto dichiarazioni molto chiare, dicendo che queste forze non rappresentano il popolo tuareg” afferma Alban. “Il problema è che i gruppi terroristici hanno penetrato la popolazione con tempo e con calma negli ultimi dieci anni e nel nord del mali sono diventati il primo datore di lavoro dopo le ong. Immigrazione, sequestri, droga. Hanno pagato i giovani per fare rapimenti: 500 euro a chi sequestrava un occidentale”.

Vie d’uscita? Secondo Lia Quartapelle, esperta d’Africa dell’Ispi, “I ribelli hanno due anime: l’estremismo islamico e l’indipendentismo tuareg. Il dialogo con questa seconda anima è non solo possibile ma doveroso e in Niger ha prodotto ottimi risultati. Lo stesso deve accadere in Mali”.

Emanuela Citterio

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