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Libia. Medio oriente. Attenzione! Non c’è solo il cap. VII° della Carta dell’Onu
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Se in un condominio il vicino va fuori di senno ed inizia non solo a menare ma anche a ferire i famigliari i vicini, accorsi nel giro scala, hanno il diritto dovere d’intervenire e/o chiamare la polizia. Ha quindi ragione Giorgio Napolitano: tecnicamente non si può parlare di guerra ma di azione di polizia internazionale prevista dal capitolo VII° della Carta dell’ONU (azione rispetto alle minacce della pace, alla violazione della pace ed agli atti di aggressione).
Il week end di bombardamenti sulla Libia ha visto un’escalation spropositata e poco coordinata. I francesi, infatti, sono partiti all’attacco ancor prima della chiusura del vertice di Parigi. Gli americani hanno, di lì a poco, ripreso il “bastone del comando” - danneggiando seriamente- il sistema difensivo di Tripoli (contraeree) con più di 120 Tomahawk. L’intento, a detta di Obama, è di passare solo in seguito il bastone agli europei e quindi a Gran Bretagna, Italia, Canada, Danimarca, Norvegia, Spagna che fan parte dei “volonterosi” assieme alla già citata Francia. Emirati Arabi Uniti e Qatar.
Tecnicamente, per usare una parola cara al nostro Presidente, s’è andato oltre la no fly zone (peraltro anche dal sottoscritto auspicata davanti a mesi d’inedia della Comunità Internazionale) sia in termini d’intensità di fuoco che di geografia di obiettivi. Per il generale americano James Mattis, a capo delle truppe americane in Medio Oriente, per poter controllare lo spazio aereo libico bisognava eliminare le difese antiaeree del paese e distruggere radar e batterie di missili. Per istituire una no-fly-zone – a sua detta - limitata alla Cirenaica sarebbero stati sufficienti venti caccia, oltre ad alcune aerei cisterna per rifornirli in volo. Una no fly-zone estesa alla Tripolitania richiede cinquanta aerei. La potenza di fuoco messa in campo dai “volonterosi” va ben oltre l’obiettivo, come ha affermato il segretario della Lega Araba, Amr Mussa che ha aggiunto: “Quello che vogliamo è proteggere i civili, non bombardarne altri”.
Come sortire dalla paura di impantanarsi come in Afghanistan o in Iraq? V’è una novità. Non parlo della richiesta unilaterale di cessate il fuoco da parte del Rais che s’è dimostrato su tutti i fronti un paranoico (solo il giorno prima aveva minacciato una guerra lunga) ma la richiesta ufficiale di un “cessate il fuoco bilaterale” auspicato da un autorevole membro della “cabina di regia” prevista dalla risoluzione ONU 1973: l’Unione Africana. Attenzione perché la “cabina di regia” è l’organo politico di riferimento per questa operazione dal Consiglio di Sicurezza e, tecnicamente, gli eserciti degli Stati non possono non ascoltarlo.
Si potrebbe quindi, in ascolto all’Unione Africana e Lega Araba, far riferimento all’art. 34 del Cap. VI° della Carta che consente il Consiglio di Sicurezza di fare indagini (post e non pre conflitto) per verificare se vi sono le condizioni reali per andare oltre l’attrito internazionale. Insomma, per ridare voce alla politica, avendo nell’oggi condizioni “diverse” rispetto a pochi giorni fa con il Rais già a Misurata ed a Bengasi. V’è la necessità di tornare alla politica perché, come ci insegnano le guerre recenti, ogni giorno di violenza è un favore che viene fatto ai diversi fondamentalismi ed uno sfavore alla “rivoluzione nonviolenta dei gelsomini”.
Una rivoluzione che, peraltro, trova una violenza inaudita non solo in Libia ma anche nel Bahrein come afferma l’alto Commissario ONU per i diritti umani, Navi Pillay che ha dichiarato di essere ''profondamente allarmata per l'escalation da parte delle forze di sicurezza'', in particolare dal golpe negli ospedali e nei centri medici nel paese, da lei definito ''una scioccante e palese violazione del diritto internazionale''.
Sono inoltre ore tra le più difficili anche per lo Yemen, in cui dominano sdegno e rabbia per il massacro di 41 manifestanti anti-regime compiuto ieri nella capitale Sanaa da non meglio identificati «cecchini» appostati sui tetti. I feriti sono oltre 20, molti dei quali lottano tra la vita e la morte.
Ma la tensione sale anche nel regno ultraconservatore dell’Arabia Saudita. Il governo è minacciato da appelli anti-governativi e raduni nelle province a maggioranza sciita. Come Gheddafi il re Abdullah ha annunciato che verranno triplicati gli aiuti già promessi ai suoi sudditi ma, al tempo stesso, ha rafforzato la repressione, a cominciare dai 60mila posti di lavoro in più nei servizi di sicurezza e dall’aumento degli stipendi agli agenti della «muttawa», la polizia religiosa. Dimenticate le riforme, ha fatto capire Abdallah, scatenando in internet la rabbia dei giovani e di tutti coloro che chiedono la trasformazione profonda di un regno che esiste solo allo scopo di garantire immense ricchezze alla famiglia reale, dispensare briciole di benessere ai cittadini e assicurare forniture di greggio all’Occidente, possibilmente a costi contenuti. In queste ore sui social network sauditi rimbalzano gli appelli per una mobilitazione domani in piazza a Riyadh e in altre città. Insomma, se in un condominio sono diverse le famiglie che sono agitate la “polizia internazionale” non può fermarsi al primo piano ma, di volta in volta dovrà favorire la soluzione di controversie anche con l’aiuto di mediatori e buoni uffici e, quindi, del cap. VIII° della Carta dell’Onu: il Consiglio di Sicurezza incoraggia lo sviluppo della soluzione pacifica delle controversie di carattere locale mediante gli accordi o le organizzazioni regionali (art. 52 comma 3).