Israele e Palestina, qualcosa si muove

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Niente di nuovo dal fronte mediorientale. Benchè in questi giorni si susseguono notizie per fortuna non di violenza, ma di significativi atti diplomatici da parte palestinese, la situazione sembra destinata a evolversi secondo il solito copione che prevede una rigida contrapposizione tra le due parti. L’abituale “muro contro muro” finisce ovviamente per pesare sulla campagna elettorale israeliana in vista del voto anticipato del 17 marzo prossimo: e quando aumenta la tensione sono sempre gli estremisti ad avvantaggiarsene. Questo emerge soprattutto dalla lettura degli eventi fornita dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione internazionali. Il 30 dicembre il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha respinto una risoluzione presentata dalla Giordania, volta a obbligare formalmente Israele a ritirarsi dalla Cisgiordania entro tre anni e a siglare un accordo di pace addirittura in 12 mesi: non c’è stato bisogno che gli Stati Uniti mettessero uno scontato veto, in quanto non si sono raggiunti i 9 voti di maggioranza necessari per l’approvazione del testo. In reazione a questo presunto smacco, i palestinesi hanno annunciato l’adesione alla Corte penale internazionale allo scopo di portare alla sbarra i leader israeliani, a cominciare da Netanyahu, come criminali di guerra. Una mossa destinata a chiudere ogni spiraglio di dialogo tra le parti. Il governo israeliano ha lanciato dichiarazioni fiammeggianti contro Abu Mazen e i suoi, presagendo conseguenze catastrofiche che minerebbero alla radice la presunta volontà israeliana di lavorare per un complessivo accordo di pace. Lo stesso Israele potrebbe accusare degli stessi crimini la dirigenza palestinese.

Niente di nuovo dunque. Eppure forse si potrebbe dare un’altra lettura dei fatti. Cominciamo dal voto in Consiglio di sicurezza ONU. Hanno votato contro la risoluzione due paesi: Stati Uniti e Australia. Cinque si sono astenuti: Gran Bretagna, Lituania, Nigeria, Ruanda e Corea del Sud. In otto hanno votato a favore: Francia, Cina, Russia, Argentina, Lussemburgo, Ciad, Giordania e Cile. Dal primo gennaio 2015 il Venezuela ha sostituito l’Argentina, l’Angola è entrato al posto del Ruanda, la Spagna al posto del Lussemburgo, la Nuova Zelanda al posto dell’Australia e la Malaysia al posto della Corea del sud. Sarebbe dunque bastato aspettare qualche giorno e, con ogni probabilità, la risoluzione sarebbe passata, in quanto l’Angola e la Malaysia avrebbero votato in modo affermativo.

Probabilmente i palestinesi non volevano che la risoluzione fosse approvata. Molteplici possono essere le spiegazioni. Forse puntavano a un veto degli Stati Uniti che aumentasse l’isolamento della posizione americana e israeliana, accentuata dal fatto che la Gran Bretagna si sarebbe astenuta e la Francia avrebbe votato a favore come poi è avvenuto. Ma per ottenere il veto bastava aspettare tre giorni. Oppure al contrario l’ANP sperava proprio nell’esito poi verificatosi: in questo modo gli Stati Uniti possono rimanere nella partita.

L’adesione palestinese al trattato di Roma e quindi alla Corte penale internazionale sembra essere invece una mossa per esacerbare la situazione e in un certo modo per “aiutare” lo stesso Netanyahu in una campagna elettorale che, per la prima volta dopo anni, vede la destra israeliana scricchiolare come autorità e consenso. Alla screditata dirigenza palestinese fa comodo avere un nemico chiaro. Idem per la controparte israeliana, ormai completamente sfiduciata dall’ANP (se mai avesse avuto fiducia), che cerca invece nuovamente appoggi tra i paesi arabi, a cominciare dall’Egitto che recentemente si è riavvicinato al Qatar. Hamas si trova dunque in una posizione di estrema debolezza: per questo fa comodo a Israele che i palestinesi si estremizzino per arrivare a chiudere la partita con il gruppo padrone della striscia di Gaza.

Qui arriviamo alla campagna elettorale in Israele. Per la prima volta l’opposizione di centro e di sinistra ha la possibilità di sconfiggere il Likud e i suoi alleati. Il presidente del partito laburista è Isaac Herzog, figlio di un Presidente dello Stato di Israele e rampollo di una delle più influenti famiglie israeliane. E i sondaggi gli sembrano favorevoli.

Altre circostanze rendono molto aperte queste elezioni. La legge elettorale presenta uno sbarramento al 3,5%: ciò impone ai piccoli partiti arabi di unificarsi rendendo in questo modo la loro futura presenza nella Knesset utile per formare una coalizione di governo. I partiti di destra sono logori. Il Likud ha avuto una scissione e Israel Beitenu, il partito dell’ultra destra dei russi di Liberman è funestato da scandali di mazzette stile italiano. Pure gli ultra ortodossi sefarditi dello Shas si stanno spaccando in due per rivalità personali.

Se guardiamo tra le pieghe degli eventi ecco che i prossimi mesi potrebbero essere molto significativi. Qualcosa si muove, speriamo nella direzione giusta.

Piergiorgio Cattani

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