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Bangkok: benvenuti a Rachaprasong, quartier generale delle “camicie rosse”
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Xuwicha e Ban si sposano oggi. Gli amici cantano e ballano su stuoie di bambù con birre in mano. Intorno soltanto spazzatura e qualche tenda abbandonata. Il luogo è un po’ insolito per un’unione, “ma al momento da qui non possiamo muoverci”, mi dice Xuwicha. No, perché significherebbe la resa.
Benvenuti a Rachaprasong, il quartier generale delle “camicie rosse”, che da due mesi si accampano in questi 3 chilometri quadrati di Bangkok, circondati da canne di bambù e copertoni d’auto come protezione. E tutto perché vogliono le dimissioni del premier. Quanti siano realmente nessuno lo sa. Si stima 4-5mila. Molti meno, comunque dei 30mila di quando la protesta ebbe inizio.
Ma sono lo zoccolo duro. “Non è vero che manca il cibo, abbiamo tutto quello che ci serve”, mi dice Adung, un ragazzo a petto nudo in mezzo al piazzale che scarica da un camion casse d’acqua. Tutti i giorni facciamo la spola da qui al Thai Market. “È il miglior supermercato di Bangkok”, dice. “Andiamo, carichiamo di riso, verdure e acqua i cassoni delle auto e poi torniamo alla base”, aggiungendo che “molte delle cose che abbiamo arrivano anche dalla gente che ci appoggia fuori Bangkok. L’esercito pensa che non ce la facciamo, ma noi riusciamo ad aggirare le strade bloccate e portarle qui”.
Davanti a noi, sotto una grande tenda, ci sono bombole del gas e grandi pentole. Le donne preparano cibo per tutti. “Sabato sera stavo cucinando”, racconta Busaya, “quando un cecchino ha sparato nella mia direzione e colpito il palo che regge la tenda, perforandolo da parte a parte”. La signora indica sconsolata il palazzo da cui è partito il colpo. Un grande grattacielo con vetri blu e intonaco bianco, normalmente sede di multinazionali straniere, ma in questi giorni base dei tiratori scelti dell’esercito Thai.
Nella tenda a fianco ancora donne a cucinare e cibo sparso un po’ ovunque. Ci sono pomodori, zucchine, barbabietole, riso. Anche il pollo, se pure in modestia quantità. Camminando si incontrano persone sorridenti sdraiate o sedute sotto le tende a guardare la tv. Tutti i canali sono chiaramente sintonizzati sui notiziari locali. “Ho paura ad uscire – racconta Changsay, un ragazzo sulla ventina che si rilassa sotto una tenda decorata da panni appesi ad asciugare – però non voglio neppure andarmene. Lo so, neppure qui dentro sono al sicuro, ma almeno”, dice alzando gli occhi in alto e scuotendo le spalle. Dalla tasca dei pantaloni tira fuori due proiettili esplosi che ha trovato domenica mattina a pochi metri dal suo accampamento.
A un giovanotto che sta appendendo i pantaloni appena lavati nell’acqua sporca del parco chiedo se sa dirmi un numero di quanti sono rimasti a Rachaprasong. “Non lo so – mi risponde – dicono che siamo 4mila ma non è vero. Siamo in grado di rimanere qui ancora per molto, molto tempo”. “Come vedi – mi dice indicandomi la tenda dietro di noi – il cibo non manca”. Prima di andarsene ridendo esclama: “ce ne andremo quando le ingiustizie in questo Paese saranno finite”. Ma il quartier generale è attrezzato di tutto.
Vicino ai bagni pubblici c’è anche la tenda della Croce Rossa locale. Sotto hanno di tutto. Siringhe, garze, medicinali. “Venerdì e sabato sono stati i giorni peggiori” , dice il dottore presente, “perché ci sono stati violenti scontri fuori e i feriti hanno preferito venire qui a farsi medicare, piuttosto che ospedale. Li rischiano di essere arrestati”. La maggior parte delle ferite, mi spiega, “sono di arma da fuoco o abrasioni. Alcuni quando lanciano le molotov si bruciano da capo a piedi e poi arrivano qui urlando. Noi facciamo quello che possiamo e in certi casi siamo costretti al trasporto in ospedale anche contro la loro volontà”.
La Croce Rossa è davanti a quella dei ragazzi vestiti in nero con il giubbotto anti proiettile e l’elmetto. Sono quelli che tra i rossi combattono l’esercito. È inutile avvicinarsi alla loro tenda, l’unica chiusa con dentro un via vai di persone. Mi fermano a dieci metri e gentilmente mi chiedono di girare da un'altra parte.
Un centinaio di metri più avanti c’è il grande piazzale con il palco. È dove i generali dei rossi si alternano ai microfoni e dove giovedì scorso è stato ferito gravemente da un cecchino uno dei leader, poi morto lunedì: il generale Khattiya Sawasdipol. C’è un signore che dai microfoni arringa il centinaio di persone sotto al palco. Sopra c’è scritto: “Peaceful protesters are not terrorist”. Ogni tanto si sente qualche esplosione. Ma oggi è una cosa da poco rispetto ai giorni passati. Esco dal quartier generale dei rossi passando da un entrata laterale. Attorno strade deserte. La domanda che tutti si fanno è la stessa: quanto potranno ancora resistere? La risposta nessuno la sa.
Andrea Bernardi
(Inviato di Unimondo a Bangkok)