#terrealte | Se i luoghi che amiamo spariscono, cosa resta di noi?

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Foto: A. Molinari ®

Non servono secoli per accorgersi che il Pianeta sta cambiando. Basta una manciata d’anni, per esempio quelli che dai giorni dell’adolescenza ti portano dritto nel mezzo dell’età adulta. Quelli sufficienti a farti notare le differenze tra una gita che hai fatto una ventina d’anni fa e quella che fai oggi, nello stesso posto, faticando a riconoscerlo. Quelli che il ghiacciaio, sai, arrivava fino lì pochi anni fa, e adesso guarda, non c’è più. Quelli che lì c’era un bosco una volta, e oggi una tempesta di vento l’ha spazzolato via, o un incendio lo ha incenerito. Quelli che c’era una prateria lì quando eri piccolo, e adesso c’è il cemento industriale di qualche nuova fabbrica.

Dicono che il cambiamento sia sempre un buon segnale, indicazione di movimento, quindi assenza di staticità, di stagnazione, sfida per l’adattamento, l’evoluzione, la resilienza. Eppure una domanda, di fronte al repentino mutare dei nostri orizzonti, anche semplicemente paesaggistici, viene da porsela: come reagiamo quando i luoghi che amiamo scompaiono? 

Sembra forse un interrogativo di poco conto di fronte all’urgenza di una pandemia, della crisi del lavoro, delle migrazioni, del mutuo per la casa o della spesa per la settimana… e di altre più pressanti questioni e preoccupazioni che attanagliano i nostri animi sia nella dimensione individuale che in quella collettiva. Mal’importanza del paesaggio nella costruzione dell’identità del singolo e delle comunità non è un elemento trascurabile: è parte integrante del vissuto, della memoria, del substrato culturale ed emotivo delle persone e dei gruppi, è storia del territorio e proiezione di aspettative.

È la spiaggia dove abbiamo imparato a nuotare, il sentiero che percorrevamo da bambini, il bosco dove si andava a funghi col nonno o il fiume dove con gli amici siamo andati a pescare, è la radura di quel bacio o la cima raggiunta con la prima ferrata. È parte di noi in un modo a cui magari non facciamo caso fino a che il caso non ce lo porta davanti, diverso, a volte irriconoscibile. Delinea gli strati della nostra esistenza, i confini delle nostre emozioni. Quindi sì, vale la pena porsela la domanda, perché di fronte alla sparizione, improvvisa o deliberata, di luoghi che hanno ospitato e plasmato la nostra crescita elaborare il lutto del paesaggio può aiutarci a capire come affrontare il presente, come reggere la pesantezza di un futuro incerto che sembra sempre più rubarci speranze, anziché farsi nostro complice nell’alimentarle.

Ci rendiamo conto che la sensazione che vorremmo è che i luoghi a cui siamo affezionati fossero lì per sempre, facendosi costante garanzia di connessione con la natura e pace interiore, le stesse che ci hanno regalato in passato. Siamo impreparati di fronte alla loro sparizione, inermi di fronte all’intensificazione di fenomeni atmosferici violenti (incendi, terremoti, tsunami, tempeste di vento, inondazioni, ondate di calore, etc.) che affrontiamo alternativamente con un senso di sfortuna, impotenza, rabbia, probabilmente anche indifferenza quando non riguardano i dintorni di casa nostra.

Non si tratta di considerare esclusivamente il danno naturalistico, la necessità per l’ecosistema di ristabilire nuove dinamiche di fronte allo stravolgimento di quelle note. Certo è indispensabile affrontare la questione anche da questa prospettiva, ma per comprenderne appieno la portata occorre fare caso al fenomeno in tutta la sua complessità, parte della quale implica anche il rapporto tra l’uomo e quell’ambiente. Senza nemmeno sapere nel dettaglio la gravità di certe scomparse in termini di biodiversità, emerge la potenza di un’assenza imponderabile, sicuramente impossibile da recuperare nell’arco di una vita umana e quindi, per noi che l’abbiamo conosciuta e persa, irrimediabile.

E se un lessico nuovo può aiutarci a fare in parte pace con quello che stiamo vivendo, come per esempio il concetto di epoquetude segnalatovi in un precedente articolo, due ulteriori spunti possono forse risultare preziosi per trovare un posto a quanto sta accadendo. Da un lato il concetto di impermanenza, coltivato negli insegnamenti buddhisti: ogni cosa è mutevole e nel tempo cambia, ogni cosa che ora è viva un giorno sarà morta, mentre nuova vita apparirà. Possono sembrare affermazioni molto elementari, ma sono le cose più semplici le più difficili da praticare. Restare nel momento presente e accettarlo per ciò che è è probabilmente tra gli esercizi spirituali più difficili. Ma è un suggerimento prezioso, che indica un approccio che vale la pena provare a percorrere.

Dall’altro lato, potrebbe essere interessante ripensare gli spunti del filosofo William Irvine rispetto allo stoicismo, che nel suo libro A Guide to the Good Life: The Ancient Art of Stoic Joy definisce come “tricotomia del controllo”, riferendosi alla più famosa dicotomia tra “ciò che possiamo controllare” e “ciò che non possiamo controllare”. Si aggiunge una terza opzione: ciò che possiamo controllare solo in parte, che possiamo influenzare, potenzialmente. Per riferirci alla riflessione che stiamo facendo, per esempio minimizzando il contributo individuale al cambiamento climatico attraverso piccoli gesti di riduzione dell’impatto delle nostre azioni sul Pianeta. O, ancora, continuando a frequentare quei luoghi, anche se sono cambiati, anche se sono meno belli, anche se sono diversi da come li avevamo conosciuti. Per non abbandonarli, per farci testimoni di quel cambiamento, per accompagnarlo con la nostra presenza e farci accompagnare a nostra volta in nuovi orizzonti, impegnandoci con gentilezza alla gratitudine per ciò che, in questo momento, ogni giorno ci circonda.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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