Un futuro non roseo per la giustizia internazionale

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Foto: Cuno Tarfusser da Flickr.com

Colpisce sentir parlare di “evanescenza del diritto internazionale” da parte di Cuno Tarfusser, giudice della Corte Penale Internazionale (CPI) dal 2009 al 2020 e per alcuni anni vicepresidente dello stesso tribunale. In una franca intervista rilasciata ad Unimondo, Tarfusser ragiona a voce alta e per quasi due ore esamina aspetti cruciali del diritto penale internazionale, a cominciare dalle sue fragilità. La Corte Penale Internazionale è frutto di un accordo multilaterale entrato in vigore venti anni fa che, in via complementare alla giurisdizione statale, si occupa di crimini che riguardano la comunità internazionale tutta, ovvero il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione.

È alla domanda, scontata, su cosa impedisce alla Corte Penale Internazionale di funzionare nel migliore dei modi, che Tarfusser invita a leggere il Preambolo dello Statuto dell’organo. Il registro linguistico usato e i riferimenti “ai milioni di bambini, donne e uomini che sono stati vittime di atrocità inimmaginabili” nel corso del Ventesimo Secolo ricalca pedissequamente lo Statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, così come la convinzione della comunità internazionale (sottoscrittrice dell’accordo) di “porre fine all’impunità degli autori di tali crimini contribuendo in tal modo alla prevenzione di nuovi [crimini]”. Non potrebbe non essere così, dato che la CPI è strettamente collegata al sistema ONU, ma è la retorica che sottende tale Preambolo a fornire a Tarfusser argomentazioni alle sue parole

Per essere più chiari, un episodio tratto dalla sua esperienza vale più di mille enunciazioni. Quando Tarfusser giunse all’Aja nel 2009, quale membro della Camera preliminare aveva concorso a emettere il secondo mandato di arresto per il presidente del Sudan Omar al-Bashir per il crimine di genocidio in Darfur, mandato che venne recapitato nel 2015 anche alle autorità sudafricane in quanto al-Bashir aveva confermato la sua presenza come capo di Stato al summit dell’Unione Africana di Johannesburg. Di fatto il governo sudafricano, Stato membro della Corte Penale Internazionale, a pochi giorni del presunto arrivo del presidente sudanese nel proprio territorio, attivò un contenzioso legale con la stessa Corte sulla priorità da dare al diritto all’immunità dei Capi di Stato o al mandato di arresto ricevuto. Secondo Tarfusser, fu un banale tentativo di prendere tempo, sperando che, in attesa della risposta della CPI, il summit si fosse già concluso e al-Bashir avesse lasciato il suolo sudafricano. Il dubbio fu però sciolto nel giro di poche ore dalla Corte Penale Internazionale, che quindi rinnovò la propria richiesta. All’arrivo di Al Bashir in Sudafrica, l’Alta Corte di Pretoria emanò un divieto di espatrio per il leader sudanese fino alla pubblicazione del verdetto sui doveri del Governo verso la Corte dell’Aja e quindi dell’obbligo di arresto di Al-Bashir. Questi, però, violò il divieto di espatrio e riuscì a tornare in patria con un volo militare. In questo caso, come in tanti altri, si impone la domanda, del tutto retorica, sulla reale intenzione del Paese che ne aveva la possibilità di perseguire giuridicamente un politico accusato di crimini contro l’umanità e genocidio. 

Alla stanchezza per un sistema fatto di ipocrisie, diplomatismi e opinioni di facciata che valgono le prime pagine dei giornali e l’attenzione dell’opinione pubblica, si affianca la consapevolezza che la concretizzazione degli interventi della stessa Corte Penale Internazionale viene osteggiata di fatto dagli stessi Stati che vi aderiscono (oltre che chiaramente dagli altri Stati esterni al sistema). “La domanda più interessante appare allora non tanto perché la CPI funzioni in maniera limitata ma perché gli Stati membri fingano di interessarsene” si chiede il giudice.

Il passo dalla riflessione internazionale a quella interna degli Stati è breve: ad esempio guardando al proprio cortile di casa, è sotto gli occhi di tutti che il sistema giustizia non funziona in Italia. Come pensare allora che gli Stati membri intendano effettivamente mettere in moto un ben più complesso sistema di giustizia penale multilaterale? “Anche a livello interno, non riescono o non vogliono?” Questo è il quesito che risuona nel corso dell’intervista. In questi giorni di insediamento del nuovo Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, Tarfusser suggerisce al collega una strada di coraggio secondo una doppia direzione: pensando in grande, è necessaria in Italia una riforma totale del codice civile e penale. Il diritto italiano resta ancora oggi basato su normative adottate durante il Regno d’Italia o il ventennio fascista, su cui, di volta in volta, si appongono vari “cerotti” per attualizzare la normativa. “Al momento manca del tutto una visione più ampia che vada a riorganizzare un sistema realmente agonizzante” spiega Tarfusser auspicando quindi l’elaborazione di una legislazione davvero repubblicana. Pensando invece più in piccolo, ma secondo un’azione ritenuta altrettanto fondamentale, “è necessaria la riorganizzazione del sistema e dei servizi di giustizia”. Consiglio che viene dall’ex procuratore capo di Bolzano dal 2001 al 2008, la cui gestione è stata presa come modello in tutta Italia per la diminuzione dei costi e l’aumento dell’efficienza, elementi di cui il Paese avrebbe un gran bisogno.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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