Rapporto Istat 2021: in un anno 1 milione di poveri in più in Italia

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Non è una sorpresa leggere nel rapporto dell’Istat la conferma di un netto peggioramento, trasversale a tutte le categorie della popolazione, degli indici di povertà. Tuttavia tra queste ve ne sono alcune più duramente colpite. Ed è giusto sottolinearlo, a discapito di errori di percezione diffusi sommariamente, che certo non giovano all’opinione pubblica. In generale, il numero di famiglie in povertà assoluta è salito di 335 mila unità, passando da 1,67 milioni nel 2019 a 2 milioni nel 2020 (da 6,4% a 7,7% della popolazione), mentre quello delle persone povere è salito di un milione, da 4,6 a 5,6 milioni (da 7,7% a 9,4%).

Tra queste l’aumento della probabilità di trovarsi sotto la soglia di povertà ha coinvolto particolarmente le famiglie di soli stranieri, la cui percentuale passa dal 22% del 2019 al 25,7% del 2020 (+3,7%), un incremento record, non registrato in nessun’altra “categoria preimpostata”. A seguire vengono i giovani, per i quali a dire il vero la povertà era già esplosa nel 2012, ma ha subito un’ulteriore preoccupante impennata nel 2020: la probabilità di vivere in una condizione di indigenza per i minorenni è passata dal 11,4% al 13,6%, mentre per i giovani dai 18 ai 34 anni è lievitata dal 9,1% all’11,4% (+2,3%) in solo un anno. Una tendenza comunque prevedibile, vista la perenne cecità delle istituzioni italiane nel gestire il mercato del lavoro a favore di una maggiore integrazione delle categorie più vulnerabili, tra cui appunto stranieri e giovani.

Ciò che però dovrebbe far riflettere è un’altra constatazione: gli effetti sulla popolazione più anziana sono stati di riflesso molto minori. L’incidenza di povertá per gli over 65 è sì aumentata del 0,5%, ma va detto che da 15 anni rappresentano l’unica categoria che ha mantenuto l’indice sostanzialmente invariato (da 4,6% nel 2006 a 5,3% nel 2020). Nello stesso periodo i giovani dai 18 ai 34 anni sono passati da un’incidenza del 2,3% all’11,4% appunto. Stesso discorso se si volesse osservare il fenomeno da un’altra angolatura: la povertá è cresciuta solo dello 0,1% per famiglie con una persona di riferimento ritirata dal lavoro (pensionati), e dello 0,5% per le famiglie con almeno un anziano. Ben lungi dall’innescare una guerra generazionale, pare evidente che in Italia il barometro del sostegno familiare (spesa pubblica) penda in larga misura verso le categorie più avanti con gli anni. Questo perché negli ultimi decenni, e in particolar modo dopo le crisi del 2012 e 2020, i giovani hanno pagato più di tutti le conseguenze di una crescente disoccupazione. Non dimentichiamo che l’Italia vanta il triste primato di quota di NEET (Neither in Employment or in Education or Training, vale a dire popolazione tra i 15 e 29 anni non impegnata nello studio, lavoro o formazione) più alta tra tutti i Paesi dell’Unione Europea, di circa 10 punti superiore al valore medio UE 28 (12,5%).

Inoltre, la crisi indotta dalla paralisi delle attività produttive nel 2020 ha interessato in maggior misura i redditi concentrati nel settore privato. Parallelamente, le famiglie che prevalentemente dipendono da redditi da trasferimento e stipendi pubblici non hanno pressoché visto modificarsi il loro livello di reddito, e questo fenomeno ha attutito l’impatto della crisi sui bilanci di queste famiglie. Non dimentichiamoci che tra i redditi da trasferimento figurano soprattutto le pensioni, oltre ai vari sussidi per la disoccupazione, il reddito di cittadinanza, etc. Ciò nonostante, dopo un anno di pandemia e decreti eccezionali, non si è mai neanche discussa la possibilità di applicare delle decurtazioni, anche minime, alle pensioni, o a determinati stipendi del settore pubblico, come gesto di solidarietà per sostenere i redditi che invece si sono polverizzati, senza colpa; o per finanziare una riduzione del cuneo fiscale dei redditi da lavoro, in questo modo incentivando nuove assunzioni, o per facilitare un programma di integrazione e regolarizzazione occupazionale per cittadini stranieri.

Il peggioramento dell’indice di povertá è strettamente legato al calo record della spesa per consumi delle famiglie (su cui si basa l’indicatore di povertá), conseguenza diretta delle misure prese per contrastare i contagi da Covid-19, le restrizioni, le chiusure forzate, ed i continui lockdown che si sono interceduti da Marzo 2020 in poi. Secondo le stime dell'Istatnel 2020 la spesa media mensile per famiglia è tornata indietro di 20 anni, ai livelli del 2000 (2.328 euro; -9,1% rispetto al 2019). Sono rimaste stabili solo le spese alimentari e quelle per l'abitazione mentre sono diminuite drasticamente quelle per tutti gli altri beni e servizi (-19,2%).

Presto, il nuovo governo dovrà affrontare il nodo del blocco dei licenziamenti e il disegno di una riforma del lavoro per il Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa (PNRR). Mi piace pensare che i nuovi poveri in Italia vogliano chiedere un cambiamento di passo. Che si auspichino il superamento della logica del blocco dei licenziamenti, un’anomalia tutta italiana, che nel tempo si è ormai convertita in un blocco delle assunzioni. Serve, e serve in fretta, l’adozione di un ammortizzatore sociale universale e di politiche attive del lavoro basate su formazione e un nuovo inserimento occupazionale. Le imprese “zombie” (con problemi di sostenibilità antecedenti allo scoppio della pandemia, generalmente poco produttive, attive sul mercato solo grazie agli interventi pubblici) sono inevitabilmente destinate a scomparire, ma i lavoratori devono essere tutelati e riaccompagnati verso una nuova specializzazione professionale.

Il 2020 è stato un anno estremamente complesso sotto tanti aspetti. È riuscito ad acuire ulteriormente le disuguaglianze, già precedentemente in atto. 5,6 milioni di persone in povertá assoluta devono ricordarci che oltre alla tragedia legata alle numerose vittime da Covid-19, ce n’è un’altra che si sta consumando, che ha azzoppato una vastissima fetta di popolazione - stranieri, giovani e settore privato in primis -, e l’ha esclusa dalla vita sociale ed economica di questo paese. Ed ha un bisogno enorme, umano, economico e psicologico, di tornare a rendersi utile.

Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.

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