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Nomadismo, geopolitica e vegetarianesimo
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Fot: Unsplash.com
Non è solo qualche animalista a chiederlo. La lettera giunta all’Unione Europea per sostenere l’iniziativa, promossa da oltre 170 organizzazioni, “End the cage age” porta la firma di oltre 150 scienziati, tra cui Jane Goodall, e più di un milione e mezzo di cittadini. Cosa chiedono? Di porre fine all’era degli animali allevati in gabbia. Una richiesta chiara e quanto mai urgente, viste anche le allarmanti connessioni che, negli ultimi anni e ancor più con l’esplosione della pandemia che ancora stiamo combattendo, emergono tra diffusione di malattie infettive molto pericolose e gestione degli allevamenti intensivi.
Eppure abbandonare abitudini – e interessi economici – non è immediato né per alcuni pensabile. Siamo una società legata a doppia mandata allo sfruttamento di altri esseri viventi per il nostro tornaconto e per la nostra alimentazione e non riusciamo a immaginarci un futuro diverso perché tra le ragioni che campeggiano sul podio del nostro egoismo specifico trionfano il guadagno, la tradizione, l’impensabile rinuncia – o quantomeno il ridimensionamento – di un modo di vivere che ci sembra l’unico possibile.
Una questione che a tal proposito può farci riflettere è quella dei pastori tibetani. Dopo secoli trascorsi ad allevare – e mangiare – yak, sembra che all’orizzonte si stiano delineando nuove abitudini e nuove politiche, proprio nel bel mezzo del boom carnivoro della Cina. Molti di questi pastori nomadi si sono negli ultimi anni trasferiti in città dagli altopiani e l’incontro con i monaci buddisti ha spinto queste comunità ad abbandonare il consumo di carne e l’allevamento, che costituiscono invece per la vita nomade la principale fonte di sostentamento (sugli altipiani vive il 94% della popolazione mondiale di questi bovini): ai pastori nomadi gli animali garantiscono carne, prodotti lattiero caseari, pelo e pelli e sono indispensabili alla sopravvivenza in condizioni ostili con temperature gelide e poca possibilità di coltivare.
La progressiva conversione dei pastori alla sedentarietà ha rotto alcune di queste abitudini, che non coincidono più con l’identità spirituale predicata da secoli dai monaci buddisti e abbracciata dai pastori solo negli ultimi decenni, anche per il progressivo diffondersi di un movimento contro i macelli nato all’interno della comunità buddista, macelli di cui invece i cinesi stanno incentivando nuove aperture in Tibet all’interno del cosiddetto programma di “alleviamento della povertà”.
Da un lato quindi una secolare tradizione vegetariana che pone ai pastori un problema spirituale ed etico; dall’altro l’esortazione, da parte delle autorità locali, a vendere (a volte anche a prezzi molto più bassi di quelli di mercato) i capi di bestiame ai macelli, atto che comporta per i pastori una via di ripiego ma necessaria al sostentamento, che ha però anche prevedibilmente creato non pochi problemi. Primo tra tutti un dilemma identitario, seguito da tensioni economiche che hanno permesso solo ai pastori più ricchi di non vendere il bestiame ai macelli ma di liberare gli yak come “riscatto spirituale”.
Una questione politica ed economica che ruota attorno all’intensificazione proprio di quegli allevamenti intensivi che l’iniziativa “End the cage age” punta a far smantellare. Un affronto al potere e alle intenzioni della Cina di proseguire in un complesso percorso di assimilazione culturale, ma anche una sfida a una posizione secolare di dominio dell’uomo sugli animali, che amplifica tensioni a livello locale e mondiale e che non può esimersi da un confronto necessario quanto spinoso su questioni legate alla salute pubblica e globale. Senza contare le implicazioni etiche che queste scelte comportano, spesso strumentalizzate eppure ancora tremendamente fondamentali per un approccio integrato alla questione. Che non si limita solo a un “diventiamo o non diventiamo tutti vegetariani” e “chiudiamo o non chiudiamo i macelli”, ma che si rivela molto più radicata, complessa e pericolosa di quanto non immaginiamo se anche l’organizzazione Human Rights Watch ha segnalato che dal 2018 in poi chi si oppone all’esproprio di terre per la realizzazione di macelli o supporta la liberazione degli animali viene classificato dalla Cina come “forza criminale sovversiva”, aspetto che sta determinando il declino del movimento. Ci arrenderemo ai soprusi, con la conseguenza di continuare a perpetrarli, anche per paura di ritorsioni, su altri esseri viventi e di mettere in pericolo la nostra stessa sopravvivenza, o sapremo farci protagonisti di un futuro più sostenibile per ciascuno e più sicuro per tutti?
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.