La pace si costruisce adesso

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Gli allarmi anti-aerei e la mancanza di riscaldamento rendono qualsiasi incontro in Ucraina difficile se non impossibile. Tanto più se a incontrarsi sono persone che hanno assistito a bombardamenti, distruzioni, sono state a lungo nascoste nei rifugi. Eppure, lontano dalle attenzioni dei grandi media, è fortissimo il desiderio di confrontarsi, capire, imparare il dialogo. Lo racconta bene Mariia Levchenko, ucraina, impegnata da diverse settimane in percorsi di peacebuilding con le ong Unponteper… e Patrir. “Chiunque in Ucraina oggi vive sulla sua pelle un trauma: non abbiamo i fondi per ricostruire tutto, ma possiamo parlare con le persone. Avere spazi sicuri in cui sedersi, bere un caffè e parlare insieme: anche solo questo rappresenta una speranza per il futuro…”

“Prima dell’invasione russa vivevo a Kiev. Lavoravo già nell’ambito del dialogo tra le diverse comunità nelle aree controllate dal governo e in quelle di Donetsk e Luhansk. Quando è scoppiata la guerra sono dovuta fuggire in Germania con mio figlio, dove viviamo da allora. Ha undici anni e per lui, come per gli altri bambini e bambine rifugiate, è durissima: deve andare a scuola ma non parla tedesco e non conosce nessuno. Viviamo in questa condizione da oltre sette mesi. Faccio consulenze per diverse organizzazioni internazionali, e da settembre lavoro con Patrir come esperta di peacebuilding. Nel mio lavoro organizzo e svolgo formazioni sulla costruzione della pace, il dialogo, e il futuro del nostro paese quando la guerra sarà finita”. Inizia così la nostra lunga conversazione con Mariia Levchenko, esperta di peacebuilding che oggi lavora insieme a noi e al nostro partner “Patrir” in Ucraina. Maria è appena tornata da una missione nel paese dove ha realizzato alcuni incontri di formazione con giovani della società civile, nell’ambito del progetto “Peace Support Ucraina” di Unponteper.

Che tipo di incontri hai realizzato?

Ho viaggiato da sola, in auto, per realizzare tre incontri di formazione. Due a Lviv e uno a Chernihiv, a cui hanno partecipato oltre cinquanta persone. A dire la verità, è stata davvero dura. Prima di tutto per gli allarmi anti-aerei: suonano molto spesso, e bisogna correre ai ripari nei rifugi. Un’altra difficoltà è la mancanza di elettricità e di riscaldamento: adesso in Ucraina fa davvero molto freddo, lavorare in queste condizioni non è facile per chi partecipa. Inoltre bisogna considerare che si tratta di persone fortemente traumatizzate: tutte sono state colpite in modo profondo dalla guerra, e anche quando a questi incontri partecipano giovani che sanno perché sono lì, che vogliono confrontarsi e imparare cose sul dialogo e la costruzione della pace, non sempre è semplice. Spesso hanno paura di parlare, di esporsi, hanno parenti o amici che stanno combattendo, e ci sono molte emozioni da considerare. Ecco perché solitamente nella prima parte delle formazioni parlo loro di teoria, gli fornisco strumenti per ragionare assieme, e solo dopo ci concentriamo sulle prospettive future per l’Ucraina. E anche in questo caso, ci sono persone che hanno perso la speranza di costruire la pace perché vivono ogni giorno sotto i bombardamenti.

Quanto impatta il trauma che hanno vissuto a livello personale sulla possibilità di lavorare nella costruzione della pace?

La componente del trauma è davvero fondamentale da includere nelle nostre formazioni. Tutte le persone che partecipano hanno disturbi da stress post-traumatico. Ogni persona con cui ho lavorato in questi mesi ha assistito a bombardamenti, distruzioni, è stata a lungo nascosta nei rifugi, vive senza riscaldamento ed elettricità, non ha modo di sentire i propri cari: tenere a mente questa situazione quando ci si siede per parlare è fondamentale. Inoltre, la società ucraina oggi è molto polarizzata. Prima della guerra eravamo divisi tra est e ovest. Oggi la situazione si è ulteriormente complicata: abbiamo persone rifugiate, sfollate interne, persone che hanno lasciato il paese e non torneranno e persone che invece lo faranno; c’è chi combatte e chi rifiuta di farlo. Cosa ne sarà della società ucraina dopo tutto questo? Come riuscirà ad uscire da questo enorme trauma collettivo? Insegnare ai/lle giovani strumenti utili al dialogo, spiegare loro come usarli nelle proprie comunità, diventa allora fondamentale. Potranno sedersi con altre persone, confrontarsi, dire che anche con tutte queste terribili esperienze ‘siamo ancora umani, siamo sopravvissuti/e, e nella nostra unità possiamo trovare la forza di andare avanti’. Dobbiamo costruire una società solida perché quando la guerra sarà finita, il nostro paese non potrà essere basato su odii e divisioni. Se per farlo aspettiamo che la guerra sia finita, sarà troppo tardi.

Qual è il ruolo della società civile per costruire una pace duratura adesso? E perché è importante farlo mentre il conflitto è ancora in corso? Qui magari possiamo pensare che rispondere all’emergenza significhi solo inviare aiuti umanitari… 

Credo che sia necessario iniziare a lavorare adesso per costruire la pace. Se vogliamo sperare di avere qualche tipo di perdono, di tentativo di comprensione, dobbiamo iniziare adesso. Partendo dalle nostre comunità, spiegando alle persone come lavorare con il trauma, come affrontare l’esperienza terribile che stanno vivendo, ma anche creando spazi per la comprensione e il perdono. Dovremmo perdonare un giorno o l’altro, e se non siamo pronti a farlo questo porterà conseguenze che renderanno lo stato delle cose ancora più orribile.

Come è cambiato lo scenario rispetto all’inizio della guerra? Hai notato cambiamenti nelle persone, nelle relazioni tra comunità, nel modo in cui viene percepita la Russia?

Sì, e credo che le organizzazioni internazionali abbiano perso tempo prezioso. Via via che la guerra progredisce è sempre più difficile parlare di pace o di dialogo con le persone. Più entriamo nell’inverno, con la gente rimasta senza acqua, elettricità e riscaldamento, più disperate le persone diventeranno e questo porterà più odio e risentimento...

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