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Insetti, salvateci dalla plastica!
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Foto: Unsplash.com
Forse sarà capitato anche a qualcun@ di voi. A me ultimamente succede spesso. La chiamo ansia da rifiuto. Il che non si riferisce a quello stato d’animo che ha a che fare con la paura di essere rifiutati, anche se, per non farsi mancare nulla, pure questa sensazione è abbastanza comune. La chiamo ansia da rifiuto nel senso più letterale. Ansia da immondizia. Ansia da centro di smaltimento materiali.
Se vi capita di dover gettare via qualcosa – sterpaglie, elettrodomestici inutilizzati, mobili rotti, materiali di scarto… soffermatevi un momento in queste grandi “cittadelle della monnezza”. Migliaia di oggetti e di cose, troppe ancora non riciclabili, abbandonate in questo mondo da noi umani, create per essere usate poco, rovinate in fretta, non riutilizzate e quindi distrutte, dimenticate. Il fatto è che non spariscono solo perché noi le abbiamo depositate in un Centro di Raccolta.
Una delle piaghe della nostra presenza sulla terra è la plastica, lo sappiamo. Nata inizialmente come elemento favoloso per le sue caratteristiche di versatilità e leggerezza, la plastica è diventata uno dei nostri peggiori incubi. Basti pensare solamente a quella utilizzata nel settore dell’agroalimentare. E non solo quella adoperata da aziende per nulla scrupolose e attente al proprio impatto ambientale, ma anche quella che infesta i marchi “verdi” di grandi catene, che per sciacquarsi di intenzioni green danno alle proprie linee biologiche una veste di ammiccante sostenibilità, salvo poi avvolgere i prodotti in quintali di imballaggi di cui solo il 30% viene riciclato. Ma chi ci salverà dall’invasione del packaging? Forse i negozi dello sfuso, ancora nicchie d’élite purtroppo spesso ammantate di quell’aura radical chic, che pur faticosamente si sforzano di ritagliarsi uno spazio nel mercato? Forse i gruppi di acquisto solidale, reti che si stanno sempre più allargando ma ancora troppo legate a porzioni “formato famiglia” e quindi ancora non immuni dai rischi dello spreco? Forse i contadini e la vendita al dettaglio dei piccoli produttori locali, lì dove eroicamente sopravvivono? Forse.
O forse lo faranno gli insetti.
Quello della plastica agroalimentare è un settore dove il riciclo è particolarmente complicato, sia per la separazione dei diversi elementi e materiali che costituiscono gli imballaggi, sia perché spesso le plastiche utilizzate contengono residui. Cosa succede dunque? Che la maggior parte finisce nei termovalorizzatori, quando va bene. Oppure dispersa nell’ambiente (suolo e mare). E quanto impiega a biodegradarsi? Quale impatto ha sul Pianeta, a partire proprio dal suolo?
Qualche risposta prova a darla RECOVER (Development of innovative biotic symbiosis for plastic biodegradation and synthesis to solve their end-of-life challenges in the agriculture and food industries), un progetto finanziato dall’Unione Europea che punta a studiare l’attività di biodegradazione della plastica indotta da insetti, lombrichi e funghi. Una sfida che parte dall’individuazione delle plastiche più adatte e dalla definizione dei metodi più idonei per raccoglierle e pretrattarle al fine di farle poi arrivare dalle nostre dispense ai “piatti” di questi microrganismi, selezionati per le loro caratteristiche in natura e potenziati con enzimi che li rendono maggiormente capaci di processare plastiche e microplasticheche arrivano ai centri di compostaggio insieme al rifiuto organico e che sono per lo più derivate dalla produzione e dalla commercializzazione di alimenti. Qualche esempio? Il verme rosso californiano (Eisenia foetida), il lombrico comune (Lumbricus terrestris), la tarma della farina (Tenebrio molitor) e la tarma della cera(Galleria mellonella).
Il progetto è ambizioso e certamente contribuisce a rafforzare le azioni di contenimento delle conseguenze dei nostri sciagurati stili di vita, ma come ribadito più volte non è e non sarà la panacea dei nostri mali. Siamo noi che dobbiamo partire con un altro passo, ovvero ridurre all’inizio di questa catena di rifiuti la quantità di materiali da smaltire, proprio per garantirci una filiera dello scarto che sia più leggera, sia in termini di costi (a maggior ragione alla luce dei recenti rincari delle bollette, non ci sfuggirà che gli imballaggi non sono gratis, né in fase di acquisto, né in fase di smaltimento!) sia in termini di impatto ambientale.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.