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Disadattati del cambiamento (climatico)
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Foto: Mika Baumeister su Unsplash.com
Qualcuno direbbe che non ne va mai una dritta. O che comunque si faccia, non si fa mai bene. O anche, semplicemente, #mainagioia. A proposito di cosa? A proposito della crisi climatica in atto.
Non parliamo delle recenti polemiche sulla COP27, ma facciamo un passo ancor più indietro. E per la precisione a febbraio 2022, quando è uscito il report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC)dal titolo Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability. Tra i principali temi affrontati da uno dei maggiori organismi internazionali per la valutazione dei cambiamenti climatici la questione dell’adattamento alle conseguenze dell’aumento delle temperature medie globali previsto per i prossimi anni. Un team di scienziati che è giunto a una riflessione debilitante: buona parte delle misure di adattamento attualmente adottate su scala mondiale non risulta efficace. Per un semplice, gravissimo motivo: per quanti sforzi vengano messi in atto su scala minore, in alcuni casi i margini di intervento sono troppo risicati (a meno che non si riducano drasticamente le emissioni di gas serra), mentre in altri il problema sta proprio in una scarsa capacità (o volontà?) di pianificazione.
Da questo rapporto emerge una considerazione che riguarda la possibilità, imprevista e indesiderata, che alcuni interventi non lungimiranti, pur se pensati con le migliori intenzioni di breve periodo, possano in un tempo medio-lungo peggiorare invece la situazione: un fenomeno di “disadattamento” che anziché mitigare le conseguenze indesiderate rende le persone e gli ambienti più vulnerabili.
Un esempio è quello legato alla costruzione di dighe, non a caso una tra le questioni più discusse nella gestione delle risorse idriche: pensate per proteggere i centri abitati o per fare riserva di acqua ed energia, rischiano di impedire, soprattutto nelle aree a rischio di innalzamento delle acque marine, il deflusso di acqua piovana, incrementando così la possibilità di inondazioni e altri danni correlati (come per esempio l’erosione delle coste, cosa tra l’altro già accaduta nelle isole Kiribati). Le dighe però piacciono, anche perché mediaticamente sono infrastrutture visibili, che parlano da sole: i soldi sono stati spesi per il bene della comunità e i risultati sono imponenti, prima di tutto visivamente.
Lo stesso problema lo scontano provvedimenti istituzionali come l’alto numero di incentivi garantiti a fronte di un disastro ambientale, come per esempio le misure adottate a favore degli agricoltori californiani dopo la crisi di siccità che ha colpito lo Stato tra il 2007 e il 2009 e che ha disincentivato dall’altro lato la ricerca assertiva di nuove modalità alternative per affrontare la crisi idrica. Situazioni che fanno il paio con l’abbandono delle terre impoverite, come per esempio è accaduto in Ghana nel 2018, in cui le persone, scoraggiate dalla potenza di una crisi a cui non sembra esserci soluzione, cercano altrove lo stesso o un altro lavoro.
Alla base di queste considerazioni c’è però un altro fattore, ovvero il fragile senso di sicurezza generato dagli interventi di adattamento che può determinare in alcuni casi una maggiore concentrazione di popolazione proprio in quelle aree che restano comunque a rischio elevato di manifestazioni meteorologiche intense. Il fenomeno è, come si può facilmente intuire, tanto più problematico quanto più le aree presentano tassi elevati di fragilità ed emarginazione, aspetto considerato con attenzione anche nella costituzione dell’eterogeneo team di ricerca che ha stilato il report: un gruppo di 270 ricercatori in grado di mettere in luce numerose variabili per le competenze messe in campo, che includono anche le scienze sociali, l’antropologia e la sociologia, per apportare agli studi sul cambiamento climatico nuove prospettive di interpretazione e lettura, mettendo in luce criticità emergenti dalle stesse comunità locali.
La difficoltà non è dunque solo nell’individuare in anticipo le misure di adattamento che esprimono una necessaria resilienza nei confronti degli impatti della crisi climatica, ma anche e al contempo individuare i possibili fattori di rischio di dis-adattamento, che indubbiamente manifesta caratteristiche complesse e di non immediata individuazione. Perché fondamentalmente non esistono piani universali e definibili in termini assoluti, applicabili in ogni contesto, né tantomeno soluzioni che possano essere calate dall’alto su comunità che invece necessitano di provvedimenti complessi, integrati, discussi e contestualizzati. Insomma, non esiste un modo semplice per definire positivamente e univocamente i risultati di un determinato intervento. Ma esiste un metodo che tendenzialmente risulta valido: il coinvolgimento delle comunità locali nello sviluppo di piani di intervento che tengano conto del contesto sociale e dei bisogni delle popolazioni che abitano le terre interessate, tendenzialmente più vulnerabili, povere ed emarginate.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.