Dall’economia pop corn all’economia ecologica

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Riempiamo la pentola con dei chicchi di mais e un filo d’olio, copriamo, accendiamo il fornello e  aspettiamo. Quando la temperatura avrà toccato i 170° C solo il 34% dei chicchi si sarà trasformato in popcorn; mentre, se arrivassimo a 180° C i chicchi esplosi sarebbero il 96%. 

Questo semplice esperimento ci mostra come piccole variazioni quantitative (di temperatura) possano determinare sostanziali cambiamenti qualitativi di natura irreversibile. Analoghe  considerazioni possono essere fatte quando parliamo della necessità di limitare il riscaldamento globale entro  soglia di 1.5°C rispetto al periodo preindustriale, con l’importante differenza che, in questo caso, gli effetti sono in larga parte imprevedibili e non desiderabili, per non dire disastrosi. Secondo l’ultimo rapporto Ipcc sul  cambiamento climatico, solo in uno scenario estremamente ottimistico riusciremo a non sforare il tetto del +1.5°C; mentre, seguendo le attuali politiche c’è un’alta probabilità (66%) di superare i +2.7°C entro la fine del  secolo. 

Se l’opinione pubblica e i media hanno iniziato a dar risalto alla crisi ecologica solo negli ultimissimi  anni, ricordiamo che quest’anno cade il cinquantesimo anniversario della conferenza di Stoccolma (1972) dove per la prima volta i governi delle maggiori economie mondiali, riconoscendo il pericolo dovuto all’alterazione  degli equilibri ecosistemici, hanno stilato 26 principi fondamentali volti alla tutela dell’ambiente. Ultima di  questa serie di incontri è la famosa XXVI Conferenza delle Parti (COP26) delle Nazioni Unite sui cambiamenti  climatici tenutasi a Glasgow lo scorso anno. Ancora una volta è parso di assistere al solito canovaccio con un  rimpallo di responsabilità tra i paesi ricchi, storicamente responsabili della maggior parte delle emissioni, e i  grandi paesi emergenti (Cina e India tra tutti, i quali rappresentano insieme un terzo della popolazione  mondiale) recalcitranti all’idea di limitare la propria espansione economica. Al di là delle responsabilità  politiche dei singoli governi, è utile domandarsi come si sia arrivati a questo punto e perché sia così difficile agire in modo rapido e concreto. Per farlo, mettiamoci a sedere su una comoda poltrona, prendiamo la nostra  busta di popcorn e sintonizziamoci sul canale della Storia. Cosa ci dovrebbe far vedere una TV onesta e  distaccata se proiettasse un corto sui fatti accaduti nell’ultimo secolo che ci hanno portato all’attuale  situazione? 

Un conduttore fantasioso potrebbe mostrare, nei primi fotogrammi, un pacco di semi di mais messo  sul fornello che si gonfia sempre di più e sempre più velocemente arrivando sul punto di esplodere. Infatti, la  nostra storia recente può essere riassunta in una sola parola: crescita. Per prima cosa l’economia: dal 1900 a  oggi il prodotto interno lordo (Pil) mondiale – ossia la misura monetaria delle attività economiche mediate  tramite i mercati – si è moltiplicato di ben trenta volte, seguendo una crescita esponenziale, ossia con incrementi  assoluti ogni anno sempre più grandi. Da un lato, l’accelerazione dei processi produttivi e la continua  espansione dei mercati, trainati da consumi sempre più alti, sono state sostenute dall’ampliamento degli strumenti finanziari volti a facilitare l’indebitamento, sia pubblico che privato, che oggi rappresenta il 322% del Pil globale. Dall’altro lato, questo incredibile risultato è stato alimentato dall’uso di risorse fossili per generare energia, passata da circa dodicimila Terawatt a inizio Novecento a oltre 173 mila nel 2019 (circa 14 volte di più). Per avere un’idea del «peso» delle attività antropiche, immaginiamo di porre su una bilancia speciale tutti gli  artefatti umani su un piatto e tutte le forme viventi (incluse piante, batteri e funghi) nell’altro piatto. Bene, si otterrebbe un perfetto equilibrio. Solo un secolo fa, invece, il peso degli oggetti costruiti dagli uomini ammontava a solo il 3% di tutta la biomassa. 

Gli economisti dicono che «non esistono pasti gratis», una  metafora per dire che ogni cosa ha un costo. Puntualmente, la natura ci sta ora presentando il conto: i livelli di  anidride carbonica sono raddoppiati rispetto al 1900, oltrepassando la soglia critica delle 400 ppm (parti per  milione) fissata per evitare gravi ripercussioni sul clima. La perdita di biodiversità, a un tasso di estinzione  osservato nell’ultimo secolo molto più rapido di quello che caratterizzò l’estinzione dei dinosauri, rischia di far collassare interi ecosistemi. Ricordiamo che a oggi, solo il 4% dei mammiferi e meno del 30% dei volatili vive  allo stato selvatico, mentre la parte restante è costituita da animali addomesticati (e dall’umanità stessa). 

Una valanga epistemologica 

Questi elementi indicano chiaramente che ci troviamo di fronte a una crisi epocale. Purtroppo, «crisi» è una parola abusata, fuorviata allo scopo di catturare l’interesse del lettore e indurlo al panico e quindi alla  paralisi. Viene qui ripresa in riferimento al suo significato etimologico: deriva dal greco κρίσις e significa  «giudizio, decisione». Se siamo chiamati a una scelta dovremo agire e per farlo in modo desiderabile bisogna prima comprendere il mondo che ci circonda. Ossia, dobbiamo affidarci a un paradigma che ci fornisca una  cornice teorica di riferimento e degli strumenti di analisi...

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